Il Vescovo di Castellaneta ha presieduto la celebrazione esequiale di Rosaria, Anna e Thomas, le vittime dell'incidente stradale verificatosi il 21 marzo scorso a Laterza

Continuare a credere nella vita. Nonostante tutto.

Tra le lacrime il seme della speranza per onorare la memoria di chi non c'è più.

Liturgia della Parola: Lamentazioni (3, 17-26); Marco (15, 33-39; 16, 1-6).

 

Sono molte e difficili le domande che salgono dal cuore davanti alle bare di Rosaria, Anna e Thomas. Domande riguardo alla dinamica dell’incidente che le ha uccise, alle sue cause se possono essere determinate, alle responsabilità dirette o indirette se esistono. Ma sentiamo con chiarezza che se una risposta esauriente a tutte queste domande fosse data, sfiorirebbe solo il mistero che ci sta davanti, non ci soddisferebbe del tutto. Rimarrebbe sempre davanti a noi la consapevolezza: “In ogni modo non ci sono più. Non c’è niente da fare; non si può tornare indietro e scrivere in un altro modo gli eventi”. È giusto questo? È umano? Ma soprattutto diventa decisiva l’altra domanda: come può essere possibile per noi, e soprattutto per la famiglia colpite dal lutto, vivere un evento così tragico senza perdere l’amore per la vita, il desiderio di affrontare il futuro, la sensibilità verso la sofferenza anche degli altri? Non è, questa ferita, troppo dolorosa per le nostre forze? per il nostro equilibrio emotivo?

Verrebbe voglia solo di piangere. Eppure dobbiamo trovare qualche parola per esprimere quello che è avvenuto. Solo così non saremo sommersi del tutto dall’angoscia e potremo opporre al senso della morte un frammento, seppur minimo, di speranza.

Scrive il Libro delle Lamentazioni: «È scomparsa la mia gioia, la speranza che mi veniva dal Signore» (Lam 3, 18). Per anni ho vissuto la gioia di essere amato da Dio; per anni ho sperato in un futuro ricco di consolazioni. E che altro è la vita di ogni persona se non una immensa speranza? Quando sembra che tutto sia ancora possibile e realizzabile; quando i sogni si dilatano per magia quasi all’infinito. Ma ora la speranza di questi defunti appare definitivamente troncata. Si capisce allora «Il ricordo della mia miseria e del mio vagare è come assenzio e veleno. Ben se ne ricorda e si accascia dentro di me l’anima mia» (Lam 3, 19-20). Non possiamo negare lo smarrimento e lo sconcerto che questo fatto ha prodotto in noi, e non possiamo negare che questo sconcerto abita il nostro cuore come una fonte amara, capace di avvelenare pensieri e sentimenti. Una volta di più ci siamo accorti quanto sia fragile la nostra vita: un momento di distrazione o una casualità imprevedibile possono interrompere quell’avventura così grande che è un’esistenza umana fatta di affetti, di sentimenti, di progetti, di abilità, di sogni… È un trauma che toglie per un attimo anche la capacità di pensare.

Ma il Libro delle Lamentazioni continua: «Voglio riprendere speranza. Le misericordie del Signore non sono finite, non è esaurita la sua compassione; esse sono rinnovate ogni mattina, grande è la sua fedeltà. Mia parte è il Signore – io esclamo – per questo in lui voglio sperare… E’ bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore» (Lam 3, 21b-24.26). Parliamo per dare voce al dolore che sta dentro di noi, ma poi attendiamo in silenzio perché Dio possa scrivere nonostante tutto un futuro per la nostra vita.

Abbiamo ascoltato nel Vangelo il racconto della passione e della morte di Gesù. Sulla croce, al culmine della sofferenza e dell’angoscia, Gesù rivolge al Padre una domanda tormentata: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27, 46). Non riusciamo ad entrare nei sentimenti di Gesù per comprendere che cosa precisamente egli abbia provato e sentito in quel momento; possiamo però comprendere che sul Calvario, in quel venerdì santo, Dio sembrava assente. I soldati di Roma inchiodavano sulla croce il Figlio di Dio e Dio sembrava tacere. Eppure proprio a lui Gesù si rivolge: il suo grido non è rivolto al nulla o a un destino impersonale, al fato, o alla propria angoscia. È rivolto a Dio e con una espressione di appartenenza piena: «Dio mio, Dio mio». Mi sento abbandonato, non percepisco la tua presenza, ma tu sei e tu rimani il mio Dio. Ti chiamo e ti invoco come mio Dio; nelle tue mani consegno la mia vita. «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mt 27, 50). Aveva una trentina d’anni; era passato in mezzo agli uomini facendo solo del bene; ma si era scontrato con i muri d’incomprensione e d’invidia degli uomini e ha pagato con l’umiliazione e la sofferenza atroce della crocifissione. Eppure noi lo riconosciamo come nostro Dio; mettiamo l’immagine della sua croce in tutte le nostre case; ci appelliamo a Lui nelle nostre miserie. Un Dio crocifisso; un Dio che, fatto uomo come noi, ha conosciuto una morte tragica e prematura. Forse era necessario proprio questo perché egli potesse darci davvero speranza. Ci avesse detto solo delle belle parole di consolazione avremmo potuto sempre obiettare: “Si, è vero, ma siamo noi uomini che dobbiamo morire, e la morte è per noi una sconfitta irreparabile”. Solo un Dio inchiodato sulla croce può dirci parole credibili anche di fronte alla morte; può garantire che la morte non sarà l’ultima parola pronunciata sulla nostra vita.

«Passato il giorno di festa, Maria di Màgdala, Maria di Giacomo e Salome… vennero al sepolcro al levar del sole… Entrando nel sepolcro, videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d’una veste bianca, ed ebbero paura. Ma egli disse loro: Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano deposto» (Mc 16, 1a.2b.5-6). Comprendiamo bene che il Figlio di Dio sia risorto: non era possibile che la morte lo tenesse in suo potere. Ma l’annuncio della Pasqua riguarda noi, noi povere creature che possiamo vivere solo camminando verso la morte: il Figlio di Dio si è fatto uomo perché noi uomini potessimo diventare figli di Dio. Egli ha vissuto una vita del tutto simile alla nostra, perché la nostra vita potesse diventare simile alla sua. Egli ha conosciuto e accettato il cammino della morte, perché la nostra morte potesse avere la speranza della sua resurrezione.

Quando un bambino viene battezzato viene inserito nel mistero pasquale di Gesù. È come se i genitori dicessero al loro figlio: noi ti abbiamo dato tutto quello che noi potevamo, una vita che terminerà necessariamente nella morte. Non potevamo fare altro, ma ti affidiamo al nostro Dio, che è Signore della vita e della morte, perché lui ti dia la speranza di immortalità che noi non siamo in grado di assicurarti. Per questo, davanti alla morte, anche davanti ad una morte prematura che ci lascia sgomenti, vogliamo rinnovare la nostra professione di speranza in Cristo: “che morì sotto Ponzio Pilato e il terzo giorno risuscitò dai morti”. A Lui affidiamo la vita di Rosaria, Anna e Thomas; Cristo non è lontano da loro, lui che ha conosciuto l’angoscia e l’amarezza della morte. E in Cristo sappiamo, come scrive san Paolo: «che quando viene distrutto questo corpo, nostra abitazione sulla terra, riceveremo un’abitazione da Dio, una dimora eterna, non costruita da mani di uomo, nei cieli» (2Cor 5, 1).

Un’ultima parola vorrei rivolgere ai familiari e agli amici che sentono in modo particolare la sofferenza di questo momento. Sappiamo bene che la morte di una persona che amiamo produce una ferita incancellabile nel cuore. Vorremmo esservi così vicini – con la preghiera e l’affetto – da lenire almeno un poco la vostra sofferenza. Vorremmo che non vi sentiste soli nel vostro dolore, ma sapeste che la comunità cristiana vi è vicina. Ma soprattutto vi chiediamo con tutto il cuore: continuate a custodire dentro di voi l’amore e la stima per la vita; ne abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno della vostra testimonianza; proprio perché sappiamo quanto la vita vi ha percosso, abbiamo bisogno che nonostante tutto voi diciate a noi che è giusto sperare. Sono convinto che i vostri cari defunti vi chiedono questo: che il peso di morte che vi sta dentro non faccia morire anche voi anzitempo. Al contrario che il ricordo dei vostri cari vi spinga ad amare ancora di più, a comprendere ancora meglio le sofferenze e le angosce degli altri, a rinnovare la fede in Dio e la speranza nella vita. Tutti noi pagheremo alla natura umana il prezzo della nostra morte; è la legge di tutti gli organismi biologici. Ma proprio per questo bisogna che viviamo in pienezza – senza ansia, ma con intensità – il tempo che il Signore ci dona. Solo così quello che speriamo da Dio e quello che gli chiediamo per questi nostri fratelli diventerà per tutti sorgente di vita.