Asolan: Una generazione avviene sempre per via di un legame, tra generante e generato: senza relazione, senza rapporto, non c’è scambio né circolazione di vita di vita.

Parrocchia, comunità generativa: la relazione del Prof. Paolo Asolan

Disponibile il testo della relazione di apertura del Convegno diocesano per l'inizio del nuovo anno pastorale

Qualche punto fermo per generare

una conversione missionaria della parrocchia

 

Castellaneta, 14 ottobre 2019

 

Relazione di don Paolo Asolan *

 

 

Sarebbe facile trattare il nostro tema – la conversione missionaria della parrocchia – ripetendo quanto si sente dire nei dibattiti pastorali odierni, e ricondurre tutto all’approvazione o alla disapprovazione di scelte pastorali già precedentemente immaginate. Di solito i dibattiti pastorali soffrono questo metodo. Ad esempio: “La cresima si fa prima o dopo la comunione?”. E ci si divide, spesso con argomenti plausibili da entrambe le parti. Ma dal punto di vista della Teologia pastorale, questo metodo non è del tutto corretto, perché evita il previo e necessario lavoro di analisi e di comprensione teologica del problema, per arrivare subito alle conclusioni su due modelli pre-fabbricati, che non sempre sono verificati in quanto cristiani, ma solo a partire dalla presunta loro efficacia al presente. Si tratta non soltanto di adattare il già saputo, ma anche di creare qualcosa di nuovo, che faccia riaccadere la fede e la salvezza. Anche a questo ci esorta con decisione Evangelii gaudium.

Trattando un tema come il nostro, occorre vegliare criticamente su come rispondiamo alla questione che cosa significhi “fare pastorale”? Verifichiamo tutti come non sia più possibile dare per scontata/presupposta una risposta a una domanda del genere, che pure è fondamentale: vent’anni fa significava alcune cose, oggi cose nuove e per certi versi diverse, accanto alle cose di sempre (come il catechismo e i sacramenti).

Chi è il soggetto chiamato a farsi carico della risposta – e dunque dell’azione ecclesiale? Per un certo tempo la Chiesa è stata intesa come coincidente con la gerarchia; c’è voluto il Concilio – la Costituzione Lumen Gentium (e la rivoluzione copernicana avvenuta nella strutturazione del testo) – per ampliare la comprensione di quel soggetto a tutti i battezzati. Dunque, chi fa la pastorale? Rispondere a questa domanda è fondamentale anche per il nostro tema, cioè per capire se abbia senso e in che senso i battezzati (con le loro vocazioni specifiche e con i carismi di cui sono dotati dallo Spirito) possano aspirare ad essere soggetti di pastorale, e non soltanto un gruppo umano che riceva qualcosa che la Chiesa (intesa qui come gerarchia, clero) fa. Lo stesso potremmo dire della famiglia, o della persona che lavora.

 

Il Papa mette spesso in rilievo l’urgenza di uscire da una azione ecclesiale centrata esclusivamente sui preti, e dunque unicamente clericocentrica. Tale concentrazione presenta due difetti: mortifica le possibilità di espansione e di penetrazione della stessa pastorale nel mondo di oggi, per il quale necessitano competenze plurime e articolate, non tutte esercitabili o attribuibili ai pastori; e non incarna adeguatamente l’ecclesiologia della communio propria del Concilio.

Tale ecclesiologia presuppone la corresponsabilità (ben distinta dalla partecipazione e dalla cooperazione) di tutti nella Chiesa, in quanto radicata nella consacrazione battesimale.

Ma essa non consiste principalmente in un’opera di aiuto o di sostegno al ministero dei pastori, quanto nell’espressione della vita cristiana “in sé”, trovando luogo e forma principalmente non nella cooperazione a compiti pastorali intraecclesiali, ma nella vita concreta del territorio, della gente, del luogo di lavoro. In tali ambiti la corresponsabilità va vissuta nella testimonianza attiva, senza necessitare di mandati speciali.

È questo l’ambito nel quale si sente maggiormente l’istanza di una generatività creativa.

 

È molto importante partire da questo riferimento fondamentale, perché esso chiarisce che i laici sono abilitati e riconosciuti nella loro responsabilità ecclesiale anzitutto e propriamente come laici, cioè non in forza di eventuali incarichi intraecclesiali (magari sostitutivi di quelli finora riservati ai ministri ordinati, come avverrebbe nell’ipotetico caso della guida pastorale di una comunità affidato a un laico), ma in forza piuttosto della loro concreta vita cristiana, secondo la vocazione e lo stato di vita di ognuno.

 

Nell’ecclesiologia della communio vale un importante criterio di contenuto e di metodo: le varie identità ecclesiali non si possono comprendere né vivere isolatamente, come compartimenti stagni o fattori autoreferenziali, ma soltanto nella reciprocità dinamica  che le costituisce e le definisce. Sistemiamo così una prima pietra sull’edificio della sinodalità. La questione della conversione missionaria è affare di tutta la Chiesa, di tutti i battezzati: e sarà possibile affrontarla soltanto insieme.

Ciò significa, tra l’altro, che esiste una costitutiva correlazione che va mantenuta tra ministeri ordinati e servizi laicali, senza che gli uni escludano la necessità o la presenza degli altri: comunionalmente gli uni rinviano agli altri.

Se così non fosse, l’istanza stessa della sinodalità potrebbe rischiare di assumere la forma di una spartizione di poteri e di ruoli, precedentemente prima concentrati soltanto nell’esercizio del ministero ordinato.

 

Occorre fare sempre molta attenzione a non ridurre le questioni di fede – sia di fede creduta che di fede vissuta – a degli slogan facili, taumaturgici, proclamando o facendo riferimento ai quali quanto c’è di problematico nella nostra missione si risolverebbe.

Da qualche tempo, ad esempio, “periferia” sembra una parola riassuntiva e taumaturgica al pari di altre del recente passato: “nuova evangelizzazione”, “catechesi missionaria”, o lo stesso “discernimento”, lanciato nella Chiesa italiana già fin dal convegno di Loreto nel 1985. Una certa Teologia pastorale spesso cade in questo tranello, soffrendo l’uso di un frasario a forte presa immaginativa e/o emotiva, di un linguaggio persino lirico fatto talora di giochi di parole, che tuttavia sembrano usati per coprire un vuoto di analisi e di idee, quando non di fede. Basta infatti chiedere: “e quindi, concretamente, che si fa?” per ricavare, talora, soltanto del silenzio.

Anche la realtà più sacra, il compito più grande che il Signore e lo Spirito Santo ci assegnano, possono diventare slogan che rinchiudono la Chiesa nella sua autoreferenzialità, nel suo parlarsi addosso, nel gioco della moltiplicazione delle analisi che finisce per avere un effetto paralizzante sulla prassi ecclesiale. Dobbiamo poter affrontare il nostro tema non come un facile slogan, di rapida sostituzione, ma come una prospettiva di azione concreta e strutturante.

In questo senso suggerisco di tenere come necessaria cornice l’istanza della conversione pastorale in senso missionario sostenuta/richiesta da papa Francesco.

Su questo, dunque, vorrei ora soffermarmi.

 

L’elezione del Papa aveva creato un’aspettativa enorme intorno alla questione della riforma della Chiesa, intesa quasi esclusivamente come riforma della Curia romana: facendo sì che ogni gesto del nuovo papa venisse interpretato in chiave “riformista”. Lo sviluppo del pontificato ha permesso di capire quanto sia stato ingenuo pensare che il problema più urgente per la Chiesa fosse aggiustare alcuni organismi del Vaticano.

La Chiesa, invece, si rinnova dalla missione, e questo è il programma che Francesco ha apertamente dichiarato in Evangelii Gaudium: «porre tutto in chiave missionaria» (34): persone e strutture, catechesi e predicazione del Vangelo, lingua e le stesse regole che incanalano la vita cristiana, atteggiamenti di base e vita spirituale. Passare da una pastorale di semplice conservazione, che potrebbe andare bene in una società cristiana omogenea, a una pastorale decisamente missionaria (15), più adeguata in un contesto culturale complesso e pluralistico come l’odierno.

In che senso la missione rigenera la Chiesa? Dove trova fondamento questa idea? Come ricorda il Papa, la missione ha origine nel mandato di Cristo: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli» (Mt 28,19-20). Ma non basta dire che la Chiesa si rinnova tanto quanto si allarga numericamente; nel pensiero del Papa c’è qualcosa di più. Per lui, in sintonia con alcuni filoni della riflessione teologica classica, la connessione tra missione e rinnovamento ecclesiale scaturisce dal dinamismo di «uscita» della Parola rivelata (20). La Parola è il Verbo incarnato, che “uscendo” dalla Trinità rinnova il mondo,  «fa nuove tutte le cose» (Ap 21,5). La sua forza salvifica e rinnovatrice richiede di far esplodere  quel “dinamismo di uscita”, che implica l’andare incontro al mondo per stabilire con lui un dialogo (Dei Verbum, 4). La missione della Chiesa di far correre la Parola nel mondo riuscirà ad aggiornare la missione di Cristo soltanto nella misura in cui faccia proprio questo “dinamismo di uscita”. Su questo punto, le parole del Papa acquisiscono una radicalità inusitata: non esiste un vero dinamismo di uscita e nemmeno un’autentica missione se non in presenza di una totale disponibilità a trovare l’uomo ovunque lui si trovi (le «periferie umane», 46) e di imparare la sua lingua per potere dialogare con lui. Questo spiega, per esempio, la decisa (e sorprendente, per certi versi) affermazione che a volte «un linguaggio completamente ortodosso, (…) è qualcosa che non corrisponde al vero Vangelo di Gesù Cristo » (41), quando (cioè: nella misura in cui) è privo di capacità d’incontro, di comprensione da parte dell’interlocutore. Quando non c’è missione oppure quando manca l’attitudine di “uscita”, l’annuncio cristiano finisce per diventare distorto ed incomprensibile. Perché la Parola riesca ad essere «potenza di Dio» (Rm 1,16) non basta che sia ripetuta: dev’essere annunciata in “chiave missionaria”.

Tale “chiave” non coincide sempre con l’audacia apostolica, perché la missione « non significa correre verso il mondo senza una direzione e senza senso » (46). “L’uscita” è vera missione cristiana solo quando va incontro all’uomo che ha concretamente davanti, non l’essere umano ideale o di là da venire, o accettato e riconosciuto a determinate condizioni. Un tale atteggiamento richiede una specifica forma di carità (nell’Esortazione, ad esempio, viene sottolineata continuamente la «capacità di accoglienza» come virtù particolarmente necessaria per l’apostolo), ed anche una decisa volontà di comprendere  la cultura in cui vive immerso l’uomo contemporaneo, giacché «quest’uomo è la prima strada che la Chiesa deve percorrere nel compimento della sua missione» (Redemptor hominis, 14).

 

Tutta l’Esortazione apostolica è permeata da una profonda convinzione di fede: « La Parola ha in sé una potenzialità che non possiamo prevedere » (22), è capace di trasformare il mondo ed il cuore di ogni uomo, con la sola condizione di essere pronunciata in “chiave missionaria”. Perciò, per il Papa il programma di rinnovamento della Chiesa esige una vera «conversione pastorale» (25), una trasformazione che influisca sulle persone e le strutture, e che implichi il passare « da una pastorale di semplice conservazione a una pastorale decisamente missionaria » (15).  Urge a chi è impegnato in pastorale e all’apostolo «ricuperare uno spirito contemplativo» (264), mettendo l’accento sull’assoluta necessità dell’incontro personale con Gesù Cristo (266). È questo incontro contemplativo a generare ardore missionario; allo stesso tempo, l’esercizio della missione conferma e arricchisce ad un tempo la vita spirituale dell’apostolo, compiendola nella gioia (9). La ricca esperienza pastorale di papa Francesco gli consente di individuare alcune possibili attitudini inadeguate (malate?) dell’apostolo: l’accidia egoista, il pessimismo sterile, i litigi tra cristiani e soprattutto un atteggiamento spesso richiamato, quello della «mondanità spirituale»: una pericolosa corruttela che si nasconde dietro apparenze di bene e che fa cercare all’apostolo la sua propria gloria piuttosto che la gloria del Signore (93). Il documento allarga tale conversione o riforma anche alle strutture pastorali, dalla parrocchia fino al papato, indicando sempre lo stesso criterio: «fare in modo che esse diventino tutte più missionarie» (27).

L’adesione a questo cammino di riforma in senso missionario, mette dunque in campo la Comunità cristiana come soggetto capace di discernere le chiamate del Signore – hic et nunc – e l’adesione al contesto nel quale essa vive – per quello che è, così come è.

 

tre tesi/ punti di approfondimento successivo

 

A) La conversione missionaria alla quale ci chiama Evangelii Gaudium non è un semplice adattamento di quello che si è sempre fatto, né l’aggiunta di attività di tipo missionario a quelle che già normalmente si fanno. È un ripensamento complessivo della forma che deve avere la comunità cristiana: una comunità di fede, che si struttura nel suo ad intra  a partire dal suo ad extra.

«Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di “uscita” e favorisca così la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia. Come diceva Giovanni Paolo II ai Vescovi dell’Oceania, «ogni rinnovamento nella Chiesa deve avere la missione come suo scopo per non cadere preda di una specie d’introversione ecclesiale» (EG 27).

 

B) In questa conversione, la parrocchia va convertita e non eliminata o dichiarata superata: è chiamata piuttosto ad assumere un ruolo di animazione e di coordinamento, a rimettersi in gioco – attraverso soprattutto i fedeli laici – con i “mondi della vita”, lì dove il vangelo vissuto e annunciato può trasformare l’esistenza, aprendola a Dio.

In questo senso, si tratta di rispondere alle sfide poste dalla modernità e post-modernità, con le sue tre mobilità: culturale, territoriale, sociale

 

La parrocchia non è una struttura caduca; proprio perché ha una grande plasticità, può assumere forme molto diverse che richiedono la docilità e la creatività missionaria del pastore e della comunità. Sebbene certamente non sia l’unica istituzione evangelizzatrice, se è capace di riformarsi e adattarsi costantemente, continuerà ad essere «la Chiesa stessa che vive in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie». Questo suppone che realmente stia in contatto con le famiglie e con la vita del popolo e non diventi una struttura prolissa separata dalla gente o un gruppo di eletti che guardano a se stessi. La parrocchia è presenza ecclesiale nel territorio, ambito dell’ascolto della Parola, della crescita della vita cristiana, del dialogo, dell’annuncio, della carità generosa, dell’adorazione e della celebrazione. Attraverso tutte le sue attività, la parrocchia incoraggia e forma i suoi membri perché siano agenti dell’evangelizzazione. È comunità di comunità, santuario dove gli assetati vanno a bere per continuare a camminare, e centro di costante invio missionario. Però dobbiamo riconoscere che l’appello alla revisione e al rinnovamento delle parrocchie non ha ancora dato sufficienti frutti perché siano ancora più vicine alla gente, e siano ambiti di comunione viva e di partecipazione, e si orientino completamente verso la missione (EG 28).

 

Le altre istituzioni ecclesiali, comunità di base e piccole comunità, movimenti e altre forme di associazione, sono una ricchezza della Chiesa che lo Spirito suscita per evangelizzare tutti gli ambienti e settori. Molte volte apportano un nuovo fervore evangelizzatore e una capacità di dialogo con il mondo che rinnovano la Chiesa. Ma è molto salutare che non perdano il contatto con questa realtà tanto ricca della parrocchia del luogo, e che si integrino con piacere nella pastorale organica della Chiesa particolare. Questa integrazione eviterà che rimangano solo con una parte del Vangelo e della Chiesa, o che si trasformino in nomadi senza radici (EG 29).

 

C) Una generazione avviene sempre per via di un legame, tra generante e generato: senza relazione, senza rapporto, non c’è scambio né circolazione di vita di vita.

Una parrocchia che funzionasse solo da centro e/o agenzia di servizi religiosi, come un ufficio dove vengono smistate cose da fare, non potrebbe generare alcuna relazione di fede.

 

La Parola di Dio ci invita anche a riconoscere che siamo popolo: «Un tempo voi eravate non-popolo, ora invece siete popolo di Dio» (1 Pt 2,10). Per essere evangelizzatori autentici occorre anche sviluppare il gusto spirituale di rimanere vicini alla vita della gente, fino al punto di scoprire che ciò diventa fonte di una gioia superiore. La missione è una passione per Gesù ma, al tempo stesso, è una passione per il suo popolo. Quando sostiamo davanti a Gesù crocifisso, riconosciamo tutto il suo amore che ci dà dignità e ci sostiene, però, in quello stesso momento, se non siamo ciechi, incominciamo a percepire che quello sguardo di Gesù si allarga e si rivolge pieno di affetto e di ardore verso tutto il suo popolo. Così riscopriamo che Lui vuole servirsi di noi per arrivare sempre più vicino al suo popolo amato. Ci prende in mezzo al popolo e ci invia al popolo, in modo che la nostra identità non si comprende senza questa appartenenza (EG 268).

 

Gesù stesso è il modello di questa scelta evangelizzatrice che ci introduce nel cuore del popolo. Quanto bene ci fa vederlo vicino a tutti! Se parlava con qualcuno, guardava i suoi occhi con una profonda attenzione piena d’amore: «Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò» (Mc 10, 21). Lo vediamo aperto all’incontro quando si avvicina al cieco lungo la strada (cfr Mc 10,46-52) e quando mangia e beve con i peccatori (cfr Mc 2,16), senza curarsi che lo trattino da mangione e beone (cfr Mt 11,19). Lo vediamo disponibile quando lascia che una prostituta unga i suoi piedi (cfr Lc 7,36-50) o quando riceve di notte Nicodemo (cfr Gv 3,1-15). Il donarsi di Gesù sulla croce non è altro che il culmine di questo stile che ha contrassegnato tutta la sua esistenza. Affascinati da tale modello, vogliamo inserirci a fondo nella società, condividiamo la vita con tutti, ascoltiamo le loro preoccupazioni, collaboriamo materialmente e spiritualmente nelle loro necessità, ci rallegriamo con coloro che sono nella gioia, piangiamo con quelli che piangono e ci impegniamo nella costruzione di un mondo nuovo, gomito a gomito con gli altri. Ma non come un obbligo, non come un peso che ci esaurisce, ma come una scelta personale che ci riempie di gioia e ci conferisce identità (EG 269).