Omelia di Mons. Sabino Iannuzzi durante la Santa Messa nella Solennità del Corpus Domini

Questa sera, la nostra Cattedrale si fa “tenda del pellegrinaggio” di un intero popolo che desidera tornare alle sorgenti della vita, perché – come ha promesso Gesù – «se uno mangia di questo pane vivrà in eterno» (Gv 6,51).

Al centro di questa tenda brilla il “Santissimo Corpo e Sangue di Cristo”, che è «pane degli angeli, pane dei pellegrini, vero pane dei figli», come abbiamo appena ricordato pregando la sequenza.

Saluto con gioia tutti voi, fratelli e sorelle, accorsi qui come “pellegrini”; i confratelli presbiteri di questa Vicaria di Castellaneta, il Vicario generale, Mons. Renzo Di Fonzo, don Mauro Ranaldi, parroco della Cattedrale, don Oronzo Maraffa, vicario foraneo, che quest’anno (il prossimo 23 settembre) ricorda il suo XXV di ordinazione presbiterale. Così come i Cavalieri e le Dame dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro e i fratelli e le sorelle delle diverse Confraternite ad iniziare da quelli del Santissimo Sacramento.

Un deferente saluto al Signor Sindaco Giambattista Di Pippa e alle autorità civili e militari presenti.

La festa del Corpus Domini, in quest’anno giubilare della speranza, mi offre l’occasione per consegnarvi la parola “pellegrini”. Una parola che può diventare per noi la “stella polare” che svela chi siamo, dove andiamo e quale nutrimento ci è dato lungo la strada.

Nella prima lettura abbiamo visto Melchisedek, re di Salem, uscire incontro ad Abramo con pane, vino e la forza della benedizione. Non si tratta di un semplice gesto rituale, ma della profezia di un Dio che non lega il culto a un tempio o a un confine, ma cammina con l’uomo, lo incontra nelle pieghe della storia e lo ricolma di forza per continuare.

Il salmista, raccogliendo proprio questa benedizione, proclama il Messia «sacerdote per sempre al modo di Melchisedek» (Sal 109): un sacerdozio che coincide con la strada percorsa, con l’offerta di sé che diventa viatico di speranza.

L’apostolo Paolo, poi, consegna ancora una volta nelle nostre mani il tesoro ricevuto: «Ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso» (1Cor 11,23).

Fratelli e sorelle,

l’Eucaristia nasce come memoria viva – “Fate questo in memoria di me” – e, proprio perché memoria, è sempre nuova, capace di rompere il cerchio dell’abitudine e di spalancare orizzonti di futuro.

Ed eccoci, infine, anche noi accovacciati sul prato di Betsaida, come ci ha narrato l’evangelista Luca: una folla affamata, dodici discepoli disorientati e un comando che ancora ci spiazza: «Voi stessi date loro da mangiare» (Lc 9,13).

Gesù non moltiplica i cinque pani e i due pesci per sottrarci dalla responsabilità, ma per insegnarci che il poco condiviso nella fede diventa sovrabbondanza: «Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste» (Lc 9,17).

In questo intreccio di figure il messaggio è chiaro: l’Eucaristia è il pane del cammino, non un premio per pochi eletti, ma la forza dei deboli, la bussola di chi cerca pace in un mondo lacerato.

Perciò, mentre le notizie dal Medio Oriente ci raccontano un nuovo incendio di violenza che coinvolge Iran, Israele e Stati Uniti, la processione di stasera, al termine della Messa, non sarà una passeggiata (a mò di passerella), ma una supplica itinerante.

Portando l’ostensorio per le vie di Castellaneta chiederemo al “Principe della pace” di disarmare i cuori – per una pace disarmata e disarmante, come ci ha indicato Papa Leone -, di dare saggezza ai governanti, di consolare le vittime, di spegnere il fuoco dell’odio che rischia di divampare sempre più.

Noi per primi dobbiamo essere “pellegrini” che camminano dietro al Pane per diventare a nostra volta pane spezzato per gli altri.

Il sacramento che adoriamo ci educa alla logica del dono, ci chiama a spezzare il pane della riconciliazione tra di noi: nelle famiglie, nei luoghi di lavoro, nelle nostre parrocchie, nella nostra comunità civile.

Ci provoca a donare tempo, ascolto, consolazione a chi si sente escluso o straniero.

Ci obbliga a guardare dentro di noi e a lasciare che il perdono di Dio sciolga il rancore che spesso custodiamo come un diritto.

In questa prospettiva, il gesto di Melchisedek si fa programma di vita: perché anche noi, come lui, siamo chiamati a uscire per andare incontro all’altro, a offrire pane e benedizione, cogliendo nella povertà un’occasione di alleanza.

Celebrare la festa del Corpus Domini significa affermare di voler essere una Chiesa “in uscita”, come amava dire Papa Francesco: una Chiesa che fa della strada il suo santuario, e dell’altro il suo altare.

Qui, nella nostra Cattedrale, l’altare è di legno, statico; là fuori, l’altare è ogni storia umana affamata di senso.

Vivere da “pellegrini del pane” significa non ridurre l’Eucaristia a devozione privata o a sterile ritualità abitudinaria, ma riconoscerla come scuola di umanità, come anticipo di quella «terra dei viventi» che la sequenza invoca.

Ricordate la strofa conclusiva della sequenza?

«Tu che tutto sai e puoi,
che ci nutri sulla terra,
conduci i tuoi fratelli
alla tavola del cielo
nella gioia dei tuoi santi».

C’è un dinamismo che parte dall’altare, attraversa la città, raggiunge le frontiere più dolorose del mondo e ritorna al cielo. In questo dinamismo si snoda la nostra missione.

Perciò, davanti al “Pane vivo”, non possiamo tacere: invochiamo la pace per tutte le zone di conflitto, per chi fugge, per chi è prigioniero della paura, per chi grida la propria rabbia con la forza delle armi.

E perché la nostra preghiera non resti infeconda, impegniamoci – noi per primi – a essere “artigiani di pace”: a partire dalle parole che proferiamo, dai giudizi che pronunciamo, dalle scelte economiche che compiamo.

«Voi stessi date loro da mangiare»: è ancora questo il comando del Maestro, rivolto a ciascuno di noi.

Non possiamo rimandare tutto a domani, né attendere che lo facciano altri.

L’Eucaristia è oggi. È il nostro presente.

La processione che vivremo sia dunque il nostro sì: il sì di una Chiesa che accetta di farsi lievito di speranza tra le macerie, che non teme di sporcarsi le mani, che crede che il frammento di ostia sia più forte di ogni armamento.

La Vergine Maria, la donna eucaristica per eccellenza, ci accompagni in questo pellegrinaggio.

Lei che ha portato nel grembo il Pane vivo, ci insegni a portarlo nei crocicchi delle strade, nei luoghi della sofferenza, nelle periferie della speranza.

Ricordiamolo sempre: chi si accosta all’Eucaristia non riceve un bene privato da mettere in cassaforte, ma un fuoco da propagare.

Perché, se questo fuoco non brucia fuori di noi, finisce per spegnersi anche dentro di noi.

Allora, fratelli e sorelle, usciamo stasera dietro al “Pane degli angeli”:

  • con lo stupore di chi sa di essere povero eppure amato;
  • con la fiducia di chi sperimenta ogni giorno la fedeltà del Signore;
  • con la determinazione di chi vuole scrivere pagine di pace in un capitolo di storia segnato da troppe lacrime.

E quando arriveremo nella Chiesa del Cuore Immacolato di Maria – che quest’anno celebra i suoi 60 anni dall’istituzione della Parrocchia – forse stanchi ma col cuore colmo di gioia, potremo ripetere, nella consapevolezza della fede, quanto la Sequenza ci ha indicato come forza di una speranza che non delude (Rm 5,5):

«Buon pastore, vero pane,
o Gesù, pietà di noi;
nutrici e difendici,
portaci ai beni eterni
nella terra dei viventi».
Amen!

+ Sabino Iannuzzi