Carissimi fratelli e sorelle,
questa sera la nostra comunità vive un mistero grande: nella Solennità di Cristo Re dell’Universo, vertice dell’anno liturgico, il Signore dona alla Chiesa un nuovo diacono, il nostro fratello Antonio, che dopo anni di cammino giunge alla gioia dell’ordinazione. Non è di certo una celebrazione come le altre: è una pagina di Vangelo che si scrive nella storia della nostra Chiesa diocesana, di questa comunità parrocchiale di San Lorenzo e nella vita del caro Antonio.
Ma il suo sì – il suo “eccomi”, pronunciato poco fa – è custodito dentro una storia segnata anche dal dolore.
Infatti, solo un mese fa, il 19 ottobre, in questa stessa chiesa, consegnavamo al Padre della misericordia la nostra sorella Maria, la sposa di Antonio.
Oggi – e lo dico con rispetto e commozione – il sì di Antonio non è un sì “nonostante” la prova, ma un sì “attraverso” la prova. È un sì che oltrepassa la croce, come accade in ogni autentica vocazione cristiana. È un sì che Maria continua a custodire dal cielo, accanto alla Madre del Signore, nel mistero che non cancella l’amore, ma lo porta a compimento.
Per questo motivo questa ordinazione ha il profumo della Pasqua: nasce dalla fede, dalla fedeltà, dalla sofferenza che diventa offerta per la vita.
Le letture di questa Solennità collocano ogni vocazione dentro il quadro ultimo: il Primato assoluto di Cristo sul Creato, sulla Storia e sull’Umanità.
L’inno della lettera ai Colossesi afferma che tutto è stato creato per mezzo di Lui e in vista di Lui (Col 1,16). E se tutto “in Lui sussiste”, allora anche la storia di Antonio — con le sue ferite e le sue attese — trova il suo centro in questa Presenza che tutto riconcilia.
E tuttavia, la liturgia non ci presenta un Cristo rivestito di potenza terrena.
Attraverso le parole dell’evangelista Luca siamo condotti sul Golgota, là dove la sconfitta umana diventa il luogo della rivelazione divina, la rivelazione della regalità di Cristo che non si comprende dai titoli, ma dal modo in cui Egli ama fino alla fine (cfr. Gv 13,1).
Nel momento supremo della crocefissione, Luca pone intorno alla croce tre sguardi:
- il popolo che «stava a vedere» (Lc 23,35);
- i capi che deridono dicendo «Ha salvato gli altri! Salvi sé stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto» (ivi);
- i soldati che lo scherniscono, «porgendogli l’aceto» (Lc 23,36).
È l’immagine di un’umanità che non comprende, che giudica, che ha paura, che rifiuta un Re così diverso da come l’avrebbe immaginato: niente potere, niente miracoli spettacolari, niente segni di forza.
Infatti, Gesù regna restando appeso al legno, senza difendersi, senza rispondere insulto ad insulto.
Regna! Regna: con il silenzio che ama; con la mansuetudine che perdona; consegnando la sua vita.
E poi ci sono i due malfattori.
Uno ripete la tentazione di sempre: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!» (Lc 23,39).
L’altro, con un cuore che si apre nel dolore, pronuncia la preghiera più semplice e più bella: «Ricordati di me quando entrerai nel tuo regno» (Lc 23, 42).
Quest’ultimo è un uomo che non chiede di essere liberato dalla sua croce; chiede semplicemente di non essere lasciato solo.
Non domanda un privilegio, chiede piuttosto un legame.
E Gesù gli dona ciò che nessun uomo aveva mai ricevuto (il dono più grande!): «Oggi sarai con me nel paradiso» (Lc 23,43).
Non domani, non fra un po’, non alla fine dei tempi: oggi! È l’oggi della misericordia, l’oggi della grazia, l’oggi del Regno di Dio.
Pensiamoci un istante.
Qual è il trono di questo Re?
Due assi di legno.
Qual è la sua corona?
Un intreccio di spine.
Qual è il suo potere?
Restare laddove è stato posto.
Qual è la sua gloria?
Amare fino all’ultimo respiro.
È lì, nell’abbassamento estremo, che brillano la sua signorìa e il suo potere: il potere di amare fino all’estremo, il potere di non scendere dalla croce per restare accanto a noi sulle nostre croci.
Infatti, il vero potere di Gesù è il potere di non avere potere, cioè: il potere di donarsi!
Carissimo Antonio, questa è la forma della tua ordinazione. Tu stai per ricevere il sacramento non davanti a un Cristo glorioso e distante, ma davanti a un Cristo crocifisso e vicino. Davanti a un Re che si abbassa, perché nessuno dei suoi figli resti in basso. Davanti a un Signore che si lascia colpire, perché nessuno si senta colpito da Dio. Davanti a un Maestro che sceglie la croce, per insegnarci che il vero potere è la cura, che il vero trionfo è la misericordia.
E tu, oggi, vieni configurato a Cristo proprio in questo modo di regnare: regnare servendo.
Il diacono non è “prima di tutto” un predicatore, un collaboratore del parroco, un animatore della carità. Prima di tutto, il diacono è l’icona viva di Cristo servo. Per questo la sua presenza nella Chiesa è una provocazione, una memoria e una profezia. È come un richiamo vivente che dice (ripete) a tutti:
– regnare è servire;
– servire è amare;
– amare è donarsi.
Essere diacono, allora, significa essere disponibile ad accogliere le lacrime degli altri, le loro fatiche, i loro limiti, le loro croci. Significa aiutare il popolo di Dio a riconoscere che la gloria del Signore passa dai piccoli gesti (quei gesti semplici ed ordinari): una visita, un ascolto, una benedizione, una mano che solleva, un passo che si avvicina, un tempo donato senza calcoli. Significa ricordare a tutti – anche a me, tuo Vescovo – che la Chiesa è vera solo quando serve, quando non si mette al centro, quando non ha paura di chinarsi su chi è stanco e impolverato dal cammino, su chi porta dentro di sé la vulnerabilità della vita.
E ora permettimi di dirlo, caro Antonio: Maria, la tua sposa, questa sera – come il 19 gennaio scorso, quando dinanzi a tutti noi espresse il suo assenso alla tua ordinazione – è nuovamente in mezzo a noi.
Non come un ricordo o come un pensiero affettuoso, ma come una presenza viva nella comunione dei santi.
Il suo sguardo accompagna questo tuo passo. La sua fede semplice e la sua forza silenziosa saranno parte del tuo ministero. I tuoi figli, oggi, vedano in te un padre che diventa più grande non perché ha più ruoli, ma perché ha più spazio d’amore nel cuore.
La comunità di San Lorenzo ha pianto con te, Antonio. Ed è bello che oggi gioisce con te. Perché quando un uomo si dona al Signore, tutta la comunità riceve un dono. Tu sarai diacono per noi, per questa terra, per le famiglie, per i giovani, per gli anziani, per chi ha perso la speranza, per chi non trova più una direzione.
Fra poco ti prostrerai a terra. È il gesto più eloquente del Vangelo: non è umiliazione, ma consegna. È il corpo che dice ciò che il cuore ha già deciso. Come ad affermare: mi affido, Signore. Sono tuo. Attraverso le mie povertà, servi il tuo popolo.
E quando ti rialzerai, ti rialzerai un uomo nuovo. Sarai rivestito della stola e della dalmatica, segno della dignità del tuo nuovo servizio. Ti sarà consegnato il Libro dei Vangeli, segno della Parola che dovrai proclamare e vivere.
Da questa sera, non entrerai più in chiesa come prima: entrerai come diacono, come servo del Regno, come fratello che porta la luce nuova di Cristo.
Caro Antonio, cammina con la regalità di Cristo:
- una regalità che non si impone, ma solleva;
- che non domina, ma ascolta;
- che non pretende, ma dona;
- che non fugge la croce, ma rimane davanti a ogni croce umana (ad ogni sofferenza).
Che Maria, la tua sposa nella vita e ora sorella nella gloria, accompagni i tuoi passi.
Che la Madre del Signore ti custodisca.
Che Cristo Re renda la tua vita un Vangelo aperto.
E che questa comunità di Laterza – e tutte quelle a cui sarai inviato – siano, grazie al tuo ministero, più fraterne, più misericordiose, più credibili agli occhi del mondo.
Amen.
+ Sabino Iannuzzi

