Carissimi fratelli e sorelle,
a cominciare da quanti sperimentano nella propria carne il “valore” della disabilità, vi saluto tutti con paterno affetto.
Un saluto particolare: ai familiari, che condividono la fatica e la gioia dell’accompagnamento; agli operatori pastorali e sanitari, ai volontari; a don Antonio Cristella, animatore diocesano di questo peculiare servizio; ai carissimi don Rocco Martucci e don Gianni Magistro, che oggi ci ospitano in Palagianello; agli altri presbiteri presenti e a tutti voi che avete desiderato essere qui.
Oggi la nostra Chiesa diocesana si ritrova per vivere un piccolo ma grande “cenacolo di fraternità”. Siamo immersi nell’itinerario di grazia del Giubileo e ci lasciamo avvolgere dalla luce del Risorto, perché davvero, con gli occhi della fede, possiamo «vedere la luce».
La pagina del Vangelo (Gv 6,1-15) che guida la nostra preghiera ci ha condotto idealmente sulla riva del lago di Galilea.
La folla segue Gesù «perché vedeva i segni che compiva sugli infermi» (Gv 6,2), a ricordarci che non sono i potenti né i sapienti ad aprire la strada, ma coloro che sperimentano la fragilità.
Gesù alza lo sguardo – infatti «alzati gli occhi, vide una grande folla» (Gv 6,5) – non passa oltre, ma coglie la presenza del limite che abita la vita di persone concrete: riconosce la fame, la sete e le attese.
Oggi quello stesso sguardo raggiunge anche noi, con la nostra unicità e le nostre ferite, e – come per quella folla che contava circa cinquemila uomini (cfr. Gv 6,10) – ci invita a sederci sull’erba verde della sua amicizia.
Davanti al bisogno smisurato, Filippo fa i conti: «duecento denari non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo» (Gv 6,7).
Andrea, fratello di Simon Pietro, invece, dal canto suo, coglie un dettaglio apparentemente irrilevante: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci» (Gv 6,9).
Quel poco – rispetto alla folla immensa – diventa il seme di un possibile miracolo, perché nessuno è così povero da non avere nulla da donare.
Le persone con il “valore” della disabilità testimoniano a noi, spesso prigionieri del mito dell’efficienza e dell’individualismo, che la vita non si misura sulla prestazione ma sulla capacità di amare; che la debolezza consegnata a Cristo diventa sorgente di fraternità e i limiti condivisi si trasformano in pane moltiplicato
Un fratello o una sorella con disabilità non è destinatario passivo di assistenza, ma protagonista di speranza per la Chiesa e per la società.
Quando tutti «furono saziati» (Gv 6,12), Gesù ordinò ai discepoli di raccogliere i pezzi avanzati «perché nulla vada perduto» (ibidem). Quel comando, solo in apparenza superfluo, denuncia la cultura dello scarto, che considera superfluo ciò che non risponde a certi standard di efficienza e produttività.
Oggi il Signore – come ai discepoli – affida a noi, in questa celebrazione giubilare, questo compito-comando: custodire ogni briciola di dignità, ogni carisma nascosto, ogni vita vulnerabile. Ognuno è un “canestro” di grazia di cui la comunità deve fare tesoro.
Nella Bolla di indizione dell’Anno Santo, Spes non confundit, Papa Francesco ricorda che «le opere di misericordia sono anche opere di speranza, che risvegliano nei cuori sentimenti di gratitudine» (Spes non confundit, 7) e che «l’attenzione inclusiva verso quanti sperimentano la propria debolezza, specialmente se affetti da patologie o disabilità limitative è un inno alla dignità umana, un canto di speranza che richiede la coralità della società intera» (ibidem).
In questo “canto di speranza” si colloca il dono dell’indulgenza plenaria, che oggi possiamo ricevere: non si tratta di un privilegio per pochi, ma l’abbraccio di misericordia che libera il cuore dalla rassegnazione e spalanca l’orizzonte della carità.
Forse, come Filippo, tante volte anche noi esclamiamo quasi ribellandoci: «Non basta…».
Non basta la salute fragile, non bastano le risorse, non basta il sostegno delle istituzioni. Ma il Vangelo risponde con “dodici canestri” colmi, perché – soprattutto per noi che crediamo – quando ci affidiamo a Cristo, il poco diventa molto; la fragilità condivisa fiorisce in comunione; la speranza seminata nel silenzio germoglia in canto di lode.
Il segno della moltiplicazione dei pani è l’espressione autentica di una comunione che genera comunità: Gesù provoca i discepoli, accoglie l’offerta di un ragazzo, fa sedere la folla in gruppi e coinvolge tutti.
È l’immagine della Chiesa (quella chiesa sinodale che Papa Francesco ha ribadito di continuo nel suo magistero), “Famiglia di famiglie”, che vogliamo costruire: una casa dove ciascuno porta il proprio pane e riceve il pane dell’altro; dove i carismi si intrecciano; dove le barriere – anche architettoniche e culturali – cadono e l’unico altare è accessibile alla dignità di tutti.
Lo slogan di questa nostra preghiera «Vedo la luce» di certo non ignora le ombre, ma proclama che la luce di Cristo illumina sentieri insospettati.
Voi, carissimi fratelli e sorelle che vivete con il “valore” della disabilità siete maestri della visione pasquale: insegnate a chi, come me, spesso è prigioniero di false sicurezze, che la luce vera splende nella croce accolta e trasformata dall’amore.
Ripartiamo da questo Giubileo diocesano con un programma semplice:
- alziamo lo sguardo per riconoscere chi ha bisogno di ascolto;
- condividiamo tempo, competenze e persino fragilità, perché diventino lievito di fraternità;
- custodiamo talenti, voci, frammenti di Vangelo che germogliano nella carne di chi è più debole.
In questo luogo, dedicato alla Vergine Maria, la Madre delle Grazie, non possiamo che affidarci a Lei: che conosce lo stupore di una vita aperta alla novità di Dio e la spada che trafigge l’anima. Ci ottenga Lei la gioia della lode e la perseveranza del servizio.
Lasciamoci contagiare dalla «speranza che non delude» (Rm 5,5), ma soprattutto «non lasciamoci rubare la speranza» (Francesco, Evangelii gaudium, 87).
Tornando a casa portiamo con noi la certezza che il Signore moltiplica i nostri cinque pani e due pesci, qualunque forma assumano, e fa di noi un popolo capace di meraviglia e di condivisione.
La nostra Diocesi, le nostre comunità parrocchiali e le nostre associazioni, grazie alla vostra presenza, potranno diventare un grande “canestro di fraternità”, dove nulla vada perduto e tutti possano gustare la sovrabbondanza del Regno.
Amen!
+ Sabino Iannuzzi