Omelia di Mons. Sabino Iannuzzi durante la Santa Messa per la Dedicazione della Chiesa parrocchiale di Gesù Risorto in Ginosa

Cari fratelli e sorelle,

è bello trovarci questa sera insieme per vivere un momento che resterà inciso per sempre nella memoria di questa comunità parrocchiale di Gesù Risorto.

A cinquant’anni dalla fondazione della Parrocchia, siamo invitati non solo a contemplare la novità di questo luogo rinnovato, ma soprattutto a dedicarlo a Dio con un gesto che manifesta e rafforza la fede di ciascuno.

Benedetto XVI dedicando la Basilica della Sagrada Familia a Barcellona nel 2010 affermò che un edificio sacro «è un segno visibile del Dio invisibile, alla cui gloria svettano [i segni propri della Chiesa] che indicano l’assoluto della luce e di colui che è la Luce, l’Altezza e la Bellezza medesime».

Questa sera vogliamo che la nostra Chiesa sia davvero questo segno sacramentale e che la gioia che visibilmente si sprigiona dalla celebrazione della sua dedicazione si trasformi in impegno concreto per il futuro.

Don Giovanni Nigro, parroco di questa comunità, che saluto e ringrazio per questa fattiva opera, insieme ai suoi collaboratori, ha preparato con cura questo giorno.

La riorganizzazione liturgica che ora contempliamo non è semplicemente un’operazione estetica o funzionale, ma nasce da una consapevolezza teologica profonda: la Chiesa-edificio è segno della Chiesa-popolo di Dio in cammino.

Infatti, il rito stesso della dedicazione ci ricorda che l’edificio è destinato in modo esclusivo e permanente alla riunione dei fedeli e alla celebrazione dell’Eucaristia, perché è figura del pellegrinaggio del popolo di Dio sulla terra e immagine della Gerusalemme del cielo.

Lo spazio liturgico, dunque, ci educa a convergere verso Cristo – altare, sacerdote e vittima – e a riconoscere la nostra vocazione di essere «pietre vive».

La prima lettura ci ha condotto con Giosuè sul monte Ebal. Dopo l’ingresso nella terra promessa, Giosuè costruisce un altare di pietre intere e su di esso offre sacrifici; quindi, scrive sulle pietre una copia della legge di Mosè e proclama davanti a tutto il popolo le parole della legge.

In quel gesto si compendiano due elementi essenziali: la Presenza di Dio (l’altare) e l’Ascolto della Parola (l’ambone). Il popolo si dispone da una parte e dall’altra dell’Arca e ascolta “la benedizione e la maledizione” della Torah.

Così anche noi, giunti al nostro “monte”, dedichiamo un altare e un’aula perché siano luogo di comunione con il Signore e sede dell’ascolto della sua Parola.

Il salmo responsoriale ci ha fatto cantare: «Entrate: prostrati, adoriamo, in ginocchio davanti al Signore che ci ha fatti. È lui il nostro Dio e noi il popolo del suo pascolo» (Sal 95).

Fratelli e sorelle, ogni volta che varchiamo la porta della chiesa, entriamo nel Cuore di Cristo, nella “ferita del suo costato”, lasciandoci avvolgere dal calore consolatore del suo amore.

Siamo così invitati a ricordare il Battesimo, la “porta dei sacramenti”. Per questo, all’inizio della celebrazione, ho benedetto l’acqua ed ho asperso prima noi, pietre vive, e poi le pareti e l’altare: per dire che l’edificio nasce dal popolo e che è esso stesso ad essere anzitutto purificato e consacrato.

Il nostro essere Chiesa non è qualcosa di intimistico; infatti, la liturgia nei suoi formulari non usa mai la prima persona singolare («io») ma la prima plurale («noi»), perché, come fedeli «siamo stretti insieme da un reale principio di vita» (Romano Guardini) e questa vita è il Cristo vivente. Sentiamoci, dunque, come “corpo di Cristo” che cresce attorno a questo altare.

San Pietro, nella seconda lettura, ci ha invitato a non temere chi può farci del male, ma ad essere «sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3,15).

L’apostolo richiama la nostra coscienza battesimale: «Quest’acqua, come immagine del Battesimo, ora salva anche voi» (1Pt 3,21). L’acqua che ci asperge ricorda che siamo morti con Cristo e resi vivi nello Spirito; ci fa ripensare alla barca di Noè che ha salvato otto persone e ogni creatura.

Con questa liturgia della dedicazione, anche noi, siamo invitati a diventare sempre più consapevoli che la nostra identità cristiana è radicata nel Battesimo e che siamo chiamati ad essere un popolo di sacerdoti, una stirpe eletta, fatta di «pietre vive utilizzate per la costruzione dell’edificio» (1Pt 2,5). “Pietre” non isolate, ma congiunte a Cristo e tra loro. Una pietra, per quanto preziosa, se resta da sola è muta e priva di valore; soltanto abbracciando le altre trova voce, senso e forza.

Questo tempio di pietra che oggi viene consacrato è immagine di ciò che siamo e di ciò che dobbiamo diventare.

Guardando le sue mura, chiediamo la grazia al Signore di crescere nell’unità; uscendo, portiamo con noi l’impegno a seminare comunione.

Sogniamo una chiesa dove nessuno si sente estraneo e dove chi possiede impara a condividere e chi non ha impara ad accogliere.

La bellezza della circolarità di questo luogo richiama proprio la necessità di una comunità che sia armonica, dove ciascuno contribuisce con i propri doni.

Il rito di dedicazione pone al centro l’altare.

Nella Scrittura gli altari sono il segno della visita del Signore: Noè erige un altare dopo il diluvio, Abramo sul monte Moria, Mosè nel deserto. Ma l’altare di pietra dell’Antico Testamento trova compimento in Cristo, perché Egli ha offerto sé stesso sull’“altare del proprio corpo”.

Perciò, nella Lettera agli Ebrei, si afferma che siamo santificati una volta per sempre mediante l’offerta del corpo di Gesù.

L’altare che oggi consacriamo è icona del Mistero Pasquale: vi sarà versato il crisma, segno che questo luogo è stato unto per sempre; l’incenso salirà come preghiera; la mensa sarà illuminata e vi si celebrerà il sacrificio eucaristico. Ciò che accade sull’altare è sempre per la nostra salvezza.

Il Vangelo, infine, ci ha raccontato l’incontro di Gesù con Zaccheo a Gerico.

Quest’uomo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma la folla e la sua bassa statura gli impedivano la vista (Lc 19,1-10).

Salito su un sicomoro, viene chiamato per nome: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua» (Lc 19,5).

Gesù – fratelli e sorelle – “oggi” vuole fermarsi nella nostra casa.

Questo episodio illumina di una particolare luce questa nostra dedicazione.

Zaccheo cercava di vedere Gesù e allo stesso tempo Gesù lo cercava. Anche noi desideriamo vedere il Signore, ed Egli desidera abitare tra noi.

La gioia di essere Chiesa nasce dall’incontro tra il nostro desiderio di vedere Gesù e il suo sguardo che si fa parola che chiama e viene ad abitare in noi.

Gesù entra nella casa di Zaccheo e Zaccheo entra nella casa della salvezza. Così accade anche per noi. Quando permettiamo a Cristo di sedersi alla nostra mensa, avviene una trasformazione e così ciò che era perduto è ritrovato.

Il Signore – oggi – visita questa Chiesa per entrare nelle nostre case, nelle nostre storie, nelle ferite e nelle speranze di questo quartiere di Ginosa. Egli non ci chiede di essere perfetti prima di accoglierlo; ci chiede di desiderarlo e di lasciarci raggiungere.

L’invito di Gesù a Zaccheo è seguito da un impegno concreto: la condivisione con i poveri e la restituzione del maltolto.

La dedicazione del nostro altare avrà senso se la mensa eucaristica ci spingerà a mangiare il pane condividendo con chi non l’ha, ad aprire le porte della nostra comunità a tutti, specialmente ai poveri e agli ultimi. Nella preghiera di dedicazione, infatti, chiederemo al Signore che in questo luogo «il povero trovi misericordia, l’oppresso ottenga libertà vera e ogni uomo goda della dignità dei tuoi figli».

La nostra Chiesa deve diventare questa casa dove la giustizia fiorisce e la carità non resti solo parola.

La dedicazione della chiesa – con i segni e i simboli che l’accompagnano – non è un gesto magico, ma un segno di ripartenza per un rinnovato impegno, con l’implicito desiderio di voler continuare la missione con sguardo di speranza.

Dopo cinquant’anni di storia, il nostro compito è anzitutto quello di ringraziare per chi ha edificato questa comunità, dai Parroci che l’hanno guidata (Padre Angelo Calabrese e Padre Gilberto Magni dei Padri Monfortani, don Giuseppe Bernalda ed ora don Giovanni) agli operatori pastorali e ai benefattori; e poi il dovere di riconoscere che ogni pietra parla di generazioni che hanno pregato, sofferto e sperato qui. Allo stesso tempo, siamo invitati a guardare in avanti, perché la nuova sistemazione dell’aula liturgica ci invita a partecipare attivamente, a sentirci protagonisti della missione, a mettere Cristo al centro.

Da questa casa dedicata al Gesù Risorto vogliamo uscire come testimoni della Pasqua, capaci di annunciare la vita nuova nei luoghi della fatica e della paura.

San Pietro ci incoraggia a non avere timore di soffrire per la giustizia e a rispondere con dolcezza e rispetto a chi ci chiede ragione della nostra speranza.

Rivolgiamo il nostro grazie al Padre per il cammino fatto in questi cinquant’anni e consegniamo il futuro alla protezione della Vergine Maria e ai santi Martiri Idruntini, Agnese, Teodoro, Antonio Primaldo e compagni, Giovanni Crisostomo, Josèmaria Escrivà e ai santi pastorelli Francesco e Giacinta Marto, le cui reliquie riposeranno sotto l’altare.

Che questa nostra comunità sia realmente “casa di Dio tra le case degli uomini”, luogo di incontro e di missione. In tal modo l’annuncio di Gesù a Zaccheo diventerà vero anche per noi: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa» (Lc 19,9). Amen.

 

+ Sabino Iannuzzi