Omelia di Mons. Sabino Iannuzzi durante la Veglia Pasquale in Resurrectione Domini

Carissimi fratelli e sorelle, Buona Pasqua!

Con questa Veglia che Sant’Agostino non a caso definì la «madre di tutte le veglie», siamo giunti al momento centrale del Triduo pasquale e dell’intero anno liturgico.

In questa notte la Parola ci ha accompagnato in un unico e lungo respiro di luce.

Dal primo rigo della Genesi – «Sia la luce» (Gen 1,3) – fino all’esperienza «delle donne che all’alba si erano recate al sepolcro e trovarono la pietra rimossa ed entrando non trovarono il corpo del Signore Gesù» (cfr. Lc 24,2-3), le Scritture non ci hanno consegnato frammenti sparsi, ma una sola storia: la storia di Dio che non arrende al nostro buio e trasforma ogni notte nell’attesa di un’alba.

Se dovessimo racchiuderla in un’immagine, potremmo dire così: la Veglia è il passaggio collettivo:

– da un sipario chiuso a un palcoscenico spalancato;

– dal sospetto che la morte vinca alla certezza che la vita ha già l’ultima parola, perché come annuncia la Sequenza del giorno di Pasqua: «Morte e Vita si sono affrontate in un prodigioso duello. Il Signore della vita era morto; ma ora, vivo, trionfa»

Non a caso, la prima lettura proclamata, dopo la liturgia della luce e l’annuncio della Pasqua, ci ha narrato il racconto della creazione, che non è per nulla un atto neutro. Infatti, Dio fa spazio all’esistenza perché desidera incontrare qualcuno.

Ogni creatura nasce dentro questo desiderio.

E per questo, all’origine, c’è una benedizione che ci riguarda personalmente. Se per tutte le creature è «Dio vide che era cosa buona» (Gen 1,4), alla creazione della persona umana esclamo che «È cosa molto buona» (Gen 1,31).

Fratelli e sorelle, questa è un’autentica dichiarazione d’amore che non è mai stata ritirata!

Quando lasciamo che la rassegnazione si impossessi dei nostri discorsi – “tanto la storia va sempre così”, “così va il mondo” – stiamo smentendo la prima pagina della Bibbia.

Lasciamo, allora, che quella luce penetri in noi, zittisca il brusio di pessimismo e ci faccia scorgere il “molto buono” ancora vivo in noi. Sforziamoci di guardare ogni situazione con gli occhi stessi di Dio, capaci di intravedere il “molto buono” nascosto perfino nelle crepe delle storie. E’ questa la prima consegna di questa notte.

Dalla luce del primo giorno siamo saliti al monte Moria con Abramo.

Lì abbiamo respirato la sua domanda: «Dov’è l’agnello per l’olocausto?» (Gen 22,7).

Abramo sale, confuso, con il fuoco e la legna, ma senza la vittima per il sacrificio.

In cima scopre che la vera offerta non è il figlio, quanto, piuttosto, è il suo cuore che si affida.

Abramo non trattiene nulla, neppure ciò che ha di più caro, e proprio così diventa padre di una discendenza «numerosa come le stelle» (Gen 22,17).

Ed ecco allora una seconda consegna che la Parola di Dio ci offre: la speranza cristiana non è una bella teoria (astratta!), passa per decisioni concrete di fiducia.

Ci sarebbe da chiedersi: è noi che cosa continuiamo a trattenere per paura?

Forse un tempo che non doniamo mai, un talento che preferiamo seppellire, un perdono che continuiamo a rimandare.

Stasera il Signore ci chiede di sciogliere quel nodo, perché sulle nostre mani libere Egli possa scrivere un futuro nuovo.

Poi il racconto si è spostato sulle rive del Mar Rosso. Il popolo ha le acque davanti, l’esercito alle spalle; per loro la vita sembrerebbe finita. E invece la notte più oscura si apre in due, il fondo asciutto appare, la colonna luminosa guida i passi.

Per Israele, quella traversata non è solo fuga dal nemico; è piuttosto una nuova nascita: perché è un popolo libero che sorge da un grembo d’acqua.

E qui una terza provocazione: nessuno si salva da solo. Se ci chiudiamo nell’individualismo, neghiamo la logica dell’Esodo. Guardiamoci ed esaminiamoci: quante volte la nostra fede diventa una faccenda privata, disinnescata, senza passione per il fratello e la sorella?

Il Mar Rosso racconta che la comunità (fatta di persone concrete) è la forma normale della salvezza; ci esorta a camminare insieme, a saper aspettare chi è rimasto indietro, a lasciarci guidare dal Signore che apre sempre sentieri impensati.

Non a caso il Giubileo che stiamo vivendo ci invita a riattraversare quella frontiera: oltrepassare l’indifferenza, rischiare la fraternità, accendere la misericordia.

A questo punto san Paolo pone il sigillo sul nostro itinerario quando afferma che: «Con Cristo siamo stati sepolti nel Battesimo, perché come Lui è risorto, così anche noi camminiamo in una vita nuova» (cfr. Rm 6,4).

Il Battesimo – fratelli e sorelle – non è un ricordo di famiglia, una foto ingiallita; è la nostra carta d’identità.

Come lo sarà a breve per Isabella che sta per attraversare la porta della vita cristiana, con questo dono di grazia.

Per questo vi invito a immaginare per un istante la vasca battesimale come quel tratto di fondale che Israele attraversa: da una parte la schiavitù, dall’altra la libertà; al centro l’acqua e la promessa di Dio.

Ogni volta che ci segniamo con l’acqua santa, come quando tra poco saremo aspersi, ricordiamo chi siamo: siamo risorti in atto.

Ciò cambia, necessariamente, la postura con cui affrontiamo il presente. Non possiamo fermarci alla logica del “si salvi chi può”, perché il nostro codice della genetica cristiana porta impressa la forza della Pasqua.

E infine le donne all’alba. Vanno con gli aromi e con le lacrime e trovano la pietra del sepolcro ribaltata ed ascoltano la domanda decisiva: «Perché cercate fra i morti Colui che vive?» (Lc 24,5).

Quello che accade lì, in quel preciso momento, è il collasso di tutte le vecchie mappe: la morte non è più dove la cercavamo, la vita non è più dove la immaginavamo.

Il sepolcro vuoto costringe a spostare lo sguardo.

Ecco, allora, un’ulteriore consegna: lasciamoci spostare. Finché continuiamo restare nei sepolcri della paura, delle lamentele o delle nostalgie, non troveremo che lenzuoli piegati. La vera missione del cristiano inizia a quando alziamo lo sguardo e corriamo – come le donne – ad annunciare che la luce esiste, che la speranza ha un volto ed un nome.

Allora, che cosa significa passare dalle tenebre alla luce in questa Pasqua dell’anno giubilare?

Permettete che vi indichi in questa notte tre piccoli passi possibili.

Primo: regalati un’ora a settimana in cui spegnere i canali di negatività che ti rattristano – notizie gridate, social pieni di rancore – e lasciati affascinare da una pagina di Vangelo, da un incontro gratuito con qualcuno, da un servizio silenzioso. Quella sarà l’ora di Genesi, l’ora in cui Dio dice: «Sia la luce» dentro di te.

Secondo: riprendi in mano la relazione più incrinata che hai e fai il primo passo, anche solo con una telefonata. Compirai lo stesso gesto di Abramo: fidarsi che dove offri ciò che ti costa il Signore moltiplica la vita.

Terzo: chiediti in famiglia, nel gruppo di lavoro, nella mia comunità, in Parrocchia: chi rimane tagliato fuori? E muoviti… perché possa attraversare anche lui il mare. Nessuno deve restare sull’altra riva per mancanza di amici o di coraggio.

Fratelli e sorelle, fra poco rinunceremo al male e proclameremo la fede. Facciamolo pensando a questi tre possibili passi.

Rinuncio? A che cosa?

Credo? In che stile di vita?

Celebrare la Pasqua, allora, significa lasciarsi convertire la mente, il cuore e le mani. Solo così saremo riconosciuti come testimoni di un’alba nuova.

Così che se domani qualcuno ci chiederà: «Che cosa avete fatto stanotte?», potremo rispondere con semplicità: abbiamo riacceso la luce originaria, abbiamo attraversato di nuovo il mare, abbiamo scoperto che la tomba è vuota e che la vita corre più veloce del buio.

Non perché siamo bravi, ma perché il Risorto ci ha preceduti e ci attende nella Galilea (il luogo dove tutto ebbe inizio per lui e per i discepoli) dei giorni feriali.

Buona Pasqua, dunque!

Che la speranza vi accompagni come respiro, e che la nostra comunità, passando insieme dalla notte al giorno, diventi segnale luminoso per chi ancora cerca la vita fra le pietre di un sepolcro.

Cristo è risorto, è davvero risorto. Alleluia!

+ Sabino Iannuzzi