Omelia di Mons. Sabino Iannuzzi durante l’Azione Liturgica in Passione Domini

Carissimi fratelli e sorelle,

il Venerdì Santo ci pone davanti al paradosso cristiano: là dove tutto sembra concludersi in un inesorabile fallimento, inizia un cammino nuovo di speranza.

Il profeta Isaia ci ha presentato la figura del «Servo sofferente», colui che «avrà successo, sarà onorato, esaltato ed inalzato grandemente» (Is 52,13), l’«uomo dei dolori che ben conosce il patire» (Is 53,3).

Il suo volto è sfigurato, la sua vita spezzata, eppure proprio in quelle piaghe brilla una guarigione universale: «per le sue piaghe noi siamo stati guariti» (Is 53,5).

«La nostra guarigione viene da Colui che si è fatto povero, che ha accolto il fallimento, che ha preso fino in fondo la nostra precarietà per riempirla di amore e di forza. Lui viene a rivelarci la paternità di Dio; in Cristo la nostra fragilità non è più una maledizione, ma luogo di incontro con il Padre e sorgente di una nuova forza dall’alto» (Francesco, Udienza generale, 8 agosto 2018).

La speranza cristiana, infatti, non nasce dall’eliminare il dolore, ma dal lasciarlo abitare dall’amore di Dio, perché solo chi si pone in ginocchio davanti alla Croce – come faremo anche noi durante questa liturgia – scopre che il fallimento può diventare grembo di fecondità.

La Lettera agli Ebrei ci invita a fare un passo ulteriore: abbiamo un «grande sommo sacerdote» che «può aver compassione delle nostre infermità» (Eb 4,14‑15), perché ha attraversato fino in fondo la valle del dolore. Per questo ci esorta: «Accostiamoci con piena fiducia al trono della grazia, per ricevere misericordia» (Eb 4,16).

Sperare, allora, significa osare questa fiducia: permettere a Cristo di toccare, con il balsamo del suo amore, le nostre paure, le nostre colpe, i nostri scoraggiamenti, sapendo che nulla di noi gli è estraneo, perché – come abbiamo pregato con il salmista – «i miei giorni sono nelle tue mani» (Salmo 30).

In questo Anno giubilare lo Spirito ci chiama soprattutto ad un pellegrinaggio interiore: non tanto verso mete esteriori, ma soprattutto verso l’intimo luogo dove Dio ci attende con la sua misericordia, con la sua pace ed il suo perdono. Con il suo amore che supera ogni umano limite.

Il racconto giovanneo della Passione, infine, ci conduce al vertice.

Dall’alto della Croce risuona il grido di Gesù: «Ho sete» (Gv 19,28).

È la sete fisica di chi sta per morire, ma anche il desiderio ardente che la sua Pasqua metta radici in noi.

Cristo ha sete della nostra fede, della nostra speranza, del nostro amore. Come la ebbe – e la suscitò – in quella donna Samaritana incontrata al pozzo di Giabobbe nella città di Sicar, con l’insolita richiesta: «Dammi da bere» (Gv 4,5).

La richiesta – “Ho sete” – è avvenuta a completamento di un gesto inaudito: «Donna, ecco tuo figlio… ecco tua madre» (Gv 19,26‑27). E’ una consegna reciproca che genera la nascita di una nuova famiglia, presieduta da Maria, Madre della speranza, e rappresentata da Giovanni, icona di ogni discepolo.

La Croce – come afferma sant’Agostino – si trasforma così nella «cattedra della comunione» (cfr. Omelia 119): perché chi spera non cammina mai da solo, ma dentro un “noi” custodito dallo sguardo materno e tenero di Maria che da quel momento condividerà i giorni difficili dei discepoli, fino ad ora, noi compresi.

Al termine di questa azione liturgica, come da tradizione in questa nostra comunità, ci metteremo in processione con i Misteri, il simulacro di Gesù Morto e l’Addolorata.

Vorrei offrirvi tre atteggiamenti che possano trasformare la processione in un “vangelo in movimento”.

Il Silenzio interiore. I diversi simulacri (da Gesù nell’Orto degli Ulivi a quello deposto nel sepolcro), la Vergine Addolorata, il suono della troccola, i canti propri e tutto ciò che accade… sono segni che parlano. Ma se il cuore non tace, diventano semplici ornamenti. Proviamo a camminare in ascolto: dei passi che risuonano, del legno che scricchiola, del sospiro di chi soffre accanto a noi, per la fatica del cammino. Solo così la processione si trasformerà in preghiera.

Lo Spirito penitenziale. Portare il Cristo Morto, l’Addolorata e le scene della passione tra le vie della nostra città, significa confessare che le nostre strade hanno bisogno di redenzione.

Le braccia che sorreggono le varie statue siano braccia che implorano misericordia e perdono; gli occhi rivolti al volto di Maria, riconoscano le lacrime dei tanti crocifissi di oggi: famiglie lacerate, popoli in guerra, sofferenti nel corpo e nello spirito, giovani senza lavoro…

Ogni passo, allora, diventi impegno concreto a “cambiare rotta” nella propria vita: questa è la vera penitenza. Altrimenti è una sacra rappresentazione folcloristica e il mondo d’oggi, di folclore religioso, non sa più che farsene!

Un Itinerario di speranza. Il nostro cammino procede verso il buio della notte, ma davanti a noi brillano tante luci.

È l’annuncio che la Pasqua avanza già dentro l’oscurità. Se accoglieremo questa verità, la processione non finirà con il rientro dei simulacri qui in Cattedrale, ma continuerà nel concreto della nostra vita quotidiana.

Continuerà ogni volta che offriremo un bicchiere d’acqua a chi ha sete, saneremo una divisione, asciugheremo una lacrima sul volto del fratello o della sorella, tenderemo una mano, rinunceremo per amore a lapidare l’altro, difenderemo la dignità dei piccoli e degli indifesi.

Solo così disseteremo veramente la richiesta del Cristo pendente sulla Croce: «Ho sete».

Carissimi fratelli e sorelle,

il mondo di oggi “ha sete”: di pace, di riconciliazione, di senso della vita e di orientamento.

Lasciamo che il grido di Gesù ci raggiunga. Permettiamo che il suo sangue e l’acqua del suo costato (cfr Gv 19,34) lavino le nostre paure.

E quando la processione si snoderà tra le strade, ricordiamo che stiamo portando con noi non dei simulacri di morte, ma il seme di una vita nuova.

Affidiamo il cammino alla Vergine Maria, la Madre Addolorata e la Madre della Speranza: Lei che ha vissuto il Sabato Santo, il giorno del silenzio assoluto, senza perdere la fiducia e senza smettere di credere.

Chiediamole di insegnarci a stare, anche noi, con perseveranza e pazienza, ai piedi della Croce, finché la speranza – quella «che non delude» (Rm 5,5) – si accenda per i vicoli della nostra Castellaneta e nelle pieghe del nostro cuore.

Allora sì, che usciremo di qui come pellegrini di speranza: con lo sguardo rivolto al Crocifisso Risorto e le mani pronte a farci “artigiani di prossimità” verso i più fragili della comunità, per riaccendere la fiamma della speranza e ritessere i fili della fiducia.

Solo così il Giubileo diventerà storia viva di misericordia, scritta con i nostri passi, tra l’esperienza della Croce e l’alba di speranza del sepolcro vuoto.

Amen!

+ Sabino Iannuzzi