Omelia durante la Santa Messa nella Notte del Natale del Signore (24 Dicembre 2024)

24-12-2024

Carissimi fratelli e sorelle,
questa notte è diversa da ogni altra notte.
Il cielo si unisce alla terra, il silenzio è rotto da un canto nuovo di gioia e una luce splende nelle tenebre del mondo: «oggi è nato per noi il Salvatore».
Questo annuncio, rivolto dall’angelo ai pastori con l’invito a non temere (cfr. Lc 2,10-11) e che abbiamo ripetuto al Salmo responsoriale, riassume il cuore della nostra fede: Dio si fa uomo, entra nella nostra storia e la trasforma con il suo Amore.

Ogni anno, la liturgia – in questa Messa della Notte – attraverso la profezia di Isaia (Is 9,1-6) ci ricorda del pellegrinaggio di un popolo, quello di Giuda, che si reca a Gerusalemme: «Un popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce (Is 9,1)».
È un’immagine particolare, che parla al cuore di ciascuno di noi, poiché tutti facciamo l’esperienza del pellegrinaggio. Laddove le tenebre rappresentano paure, incertezze e sofferenze che ci accompagnano, in questa notte santa, in cui Dio stesso accende una luce che non si spegnerà mai.
Quella luce è Gesù, il «Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace» (Is 9,5).
Il suo regno non è fatto di potere terreno, ma di giustizia e di amore.
Con la nascita di Cristo, il mondo riceve una speranza nuova, una speranza che non si basa su ciò che l’uomo può fare, ma su ciò che Dio ha fatto e continua a fare per ciascuno noi.
Siamo invitati anche noi a camminare in questa luce, a permettere che sia Lui a rischiarare le zone d’ombra della nostra vita, così da illuminare il nostro cammino.
L’apostolo Paolo, scrivendo al discepolo e compagno Tito, ci consegna un altro grande dono che celebriamo in questa notte: l’apparizione della grazia di Dio (Tt 2,11).
Questa grazia, manifestata nella nascita di Gesù, non è un’idea astratta, ma l’amore di Dio che si fa visibile, tangibile, incarnato. Di quell’Amore che «venne fra i suoi» (Gv 1,11). E «i suoi siamo noi, perché Egli non ci tratta come qualcosa di estraneo. Ci considera cosa propria, che Lui custodisce con cura, con affetto. Ci tratta come suoi. Non nel senso che siamo suoi schiavi, Lui stesso lo nega: “Non vi chiamo più servi” (Gv 15,15). Ciò che propone è l’appartenenza reciproca degli amici, E’ venuto, ha superato tutte le distanza, si è fatto vicino a noi come le cose più semplici e quotidiane dell’esistenza. Infatti, Egli ha un altro nome, che è “Emmanuele” e significa “Dio con noi”, Dio vicino alla nostra vita, che vive in mezzo a noi» (Francesco, Dilexit nos, 34).
Questa grazia ci insegna a vivere con sobrietà, giustizia e pietà, in attesa della piena «manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore» (Tt 2,13).
Ci invita a guardare oltre i nostri limiti e a vivere come uomini e donne redenti, capaci di amare come Lui ci ha amati.
La nascita di Cristo ci ricorda che la misericordia non è solo un dono da accogliere, ma una responsabilità da vivere e incarnare.

Ed infine, l’evangelista Luca ci conduce a Betlemme, in una stalla semplice e umile, dove la Parola di Dio si fa carne.
Qui il mistero della nascita si intreccia con la realtà del presepio, che ci parla di povertà, umiltà e stupore: Dio sceglie ciò che è piccolo e insignificante per rivelare la sua grandezza.
Il presepio, simbolo proprio della nostra cultura del Natale, ci invita a riflettere sulla semplicità di questo evento: «un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia» (Lc 2,12).
Non c’è nulla di straordinario agli occhi del mondo, eppure qui si manifesta l’amore infinito di Dio. La scena di Betlemme ci sfida a ritrovare lo stupore di fronte a un Dio che si abbassa per elevarci.
Infatti, lo stupore è il primo passo verso la fede, perché solo un cuore che sa meravigliarsi è un cuore aperto alla grazia.

Insieme, prima dell’inizio della celebrazione eucaristica, come in un’attesa vigilante, abbiamo assistito al gesto dell’apertura della “Porta Santa” da parte di Papa Francesco nella Basilica di San Pietro in Vaticano. È il solenne inizio del primo Giubileo Ordinario del XXI secolo. Da “Pellegrini di speranza”, continuamente in viaggio verso Dio, abbiamo idealmente attraversato quella Porta Santa come «incontro vivo e personale con il Signore Gesù, “porta” di salvezza e “nostra speranza”» (Francesco, Spes non confundit, 1).
Essere “pellegrini di speranza” – a partire proprio da questa notte – significa riconoscere che non camminiamo da soli. Cristo è la nostra luce e guida, e noi siamo chiamati ad offrire la nostra testimonianza portando questa luce nel mondo.
Il Giubileo è «l’occasione per ravvivare la speranza» (ibidem) in un tempo che spesso sembra segnato dalla sfiducia e dalla paura. È un invito a riscoprire la misericordia come stile di vita, un amore che non si ferma davanti ai nostri limiti ma li trasforma in opportunità di crescita.
Da domenica prossima, 29 dicembre, questo “pellegrinaggio di speranza”, come «esperienza viva dell’amore di Dio» (ivi, 6), si avvierà anche nella nostra Chiesa locale di Castellaneta. Per un anno saremo invitati, con diversi «momenti forti a nutrire ed irrobustire la speranza, insostituibile compagna che fa intravedere la meta: l’incontro con il Signore Gesù» (cfr. ivi, 5).

Come ho condiviso nel “Messaggio natalizio a questa nostra Chiesa”, il Natale, in questo nostro cammino di fede, ci offre tre parole che si traducono in altrettanti segni di speranzastupore, gioia e pace.

  • Il primo passo del pellegrinaggio è lo stupore: Dio ci sorprende sempre. Nella semplicità di una mangiatoia, nella tenerezza di un bambino, si rivela la potenza del suo amore. Riscopriamo lo stupore come atteggiamento di chi sa riconoscere la tenerezza di Dio anche nei piccoli segni della vita quotidiana.
  • Segue poi la gioia: l’annuncio degli angeli ai pastori è un invito alla gioia: «ecco, vi annuncio una grande gioia» (Lc 2,10). Non si tratta di una gioia superficiale, ma di quella che nasce dal sapere che Dio è con noi. Una gioia che diventa contagiosa, che ci spinge a condividere il dono ricevuto.
  • Infine, la pace: la nascita di Cristo porta con sé il dono della pace; non la pace del mondo, fragile e precaria, bensì la pace del cuore, la riconciliazione con Dio, con noi stessi e con gli altri. Siamo chiamati a essere strumenti di questa pace, costruttori di ponti in un mondo segnato da divisioni e guerre. L’invito è a non abituarci, rischiando di lasciarci assuefare al male sempre in agguato, memori di quanto scriveva Elie Wiesel, Premio Nobel per la Pace nel 1986, in occasione del suo discorso alla Casa Bianca il 12 aprile 1999:

«L’opposto dell’amore non è l’odio, ma l’indifferenza. L’opposto della giustizia non è l’ingiustizia, ma l’indifferenza. L’opposto della pace non è la guerra, ma l’indifferenza alla guerra. L’opposto della vita non è la morte, ma l’indifferenza alla vita o alla morte».

Nella Notte del Dio-fatto-uomo, la differenza l’ha fatta la disponibilità dei pastori a lasciarsi scomodare: si sono messi in cammino verso il luogo indicato, hanno incontrato e non hanno ceduto all’indifferenza, che è la vera minaccia alla vita e al Natale.

Carissimi fratelli e sorelle,
questa notte non stiamo celebrando solo il ricordo di un evento passato, ma un memoriale: l’esperienza viva del mistero di Dio che si fa vicino a noi.
Davanti alla scena della natività, qui in Cattedrale o nelle nostre case, lasciamoci avvolgere dalla luce del Salvatore, che illumina le nostre tenebre e ci guida verso un futuro di speranza.
Siamo “pellegrini di questa speranza”, chiamati a incarnare la misericordia di Dio nel nostro quotidiano.
Riscopriamo lo stupore, viviamo nella gioia e costruiamo la pace.
Come i pastori di Betlemme, corriamo verso la mangiatoia e lasciamo che il Bambino di Betlemme trasformi la nostra vita con il suo Amore.

Oggi è nato per noi il Salvatore: rallegriamoci ed esultiamo!

Buon Natale a tutti voi e alle vostre famiglie.

+ Sabino Iannuzzi