Omelia di Mons. Sabino Iannuzzi durante la Santa Messa in Coena Domini

Carissimi fratelli e sorelle,

questa sera il Signore ci raduna attorno alla sua mensa per farci entrare nel mistero dell’amore che si dona fino all’estremo, «avendo amato i suoi che erano nel mondo lì amò sino alla fine» (Gv 13,1). Proprio “fino alla fine” per condividere che non esiste una soglia oltre cui Cristo si rifiuta di andare, perché Dio non pone barriere al suo dono. È un amore sproporzionato, che non si ferma dinanzi a nulla e prosegue senza riserve.

Infatti, sosteneva Sant’Agostino nel suo commento al Vangelo di Giovanni: «Forse l’espressione li amò sino alla fine va intesa nel senso che li amò tanto da morire per loro, secondo la sua stessa dichiarazione: Non c’è amore più grande, che dare la vita per i propri amici (Gv 15, 13). L’espressione, dunque, li amò sino alla fine, può avere questo senso: fu proprio l’amore a condurlo alla morte» (Omelia 55,2).

Le letture che abbiamo appena ascoltato – l’uscita dall’Egitto, la consegna dell’Eucaristia, il gesto della lavanda dei piedi – sono come tre stazioni luminose di un unico grande racconto: il racconto della speranza che Dio non smette di accendere nella storia e nei cuori di tutti noi.

Questa nostra assemblea, nell’orizzonte dell’anno giubilare, è chiamata a respirare proprio questa speranza, lasciandosi contagiare da essa, per offrirla a quanti sono assetati di futuro.

Partiamo dalla pagina dell’Esodo. Nella notte più buia, quando la schiavitù sembra irremovibile, Dio chiede agli israeliti un gesto piccolissimo, eppure, decisivo: un agnello condiviso in famiglia, il sangue a segnare le porte, il pane senza lievito preparato in fretta.

È il memoriale di un «passaggio» – la Pasqua – che trasforma il popolo di schiavi in gente libera, in pellegrini verso la terra promessa.

Ogni dettaglio parla di fiducia: chi dipinge gli stipiti con il sangue dell’agnello non sa ancora come sarà il domani, ma crede che il Signore verrà e li tirerà fuori da quella condizione.

Ecco, allora, il primo segno della speranza: è il fidarsi di una parola che precede la salvezza, investire il presente sulla promessa di Dio.

Anche noi, come Popolo di Dio in cammino, ci sentiamo invitati a rivestire le vesti del viandante. Quante schiavitù, quante oppressioni, esterne e interiori, chiedono di essere consegnate a questa notte di liberazione! Paure che paralizzano, sfiducia che incupisce, logiche di sopraffazione che tengono prigioniero il desiderio di una fraternità, laddove a prevalere è il precetto dell’amore: «come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34). Poniamo tutto ai piedi dell’altare perché il Signore, ancora una volta, compia il suo passaggio di grazia.

Dalla casa degli ebrei passiamo al Cenacolo di Gerusalemme, dove Paolo – nella prima lettera ai Corinzi – ci ha fatto ascoltare le stesse parole che anche questa, sera, ancora una volta pregheremo sul pane e sul vino: «Questo è il mio corpo… Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue» (Gv 11,24-25).

Notiamo il movimento: Gesù non si limita a darci un ricordo del passato, ma ci inserisce in un flusso che va verso una meta precisa: «finché egli venga» (Gv 11,26).

L’Eucaristia è la speranza resa commestibile: ciò che ancora non vediamo – il ritorno glorioso del Signore – ci viene incontro come anticipo e pegno. Quando ci accostiamo a questo banchetto, portiamo sulle labbra il sapore di un futuro che non delude, perché lo stiamo già “mangiando” nella carne offerta di Cristo. Se il Giubileo è “pellegrinaggio di speranza”, allora la celebrazione eucaristica è la tappa quotidiana in cui la speranza si fa viva, esigente e concreta.

Ma l’evangelista Giovanni, nel suo Vangelo, ci invita a compiere un passo oltre.

Lui non racconta l’istituzione del pane e del vino: preferisce aprirci gli occhi su un’azione silenziosa, umile, a dir poco scandalosa.

Gesù «si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano… e cominciò a lavare i piedi dei discepoli» (Gv 13,4-5).

È il Maestro che si fa servo, è il Dio in ginocchio davanti all’uomo.

Se l’Eucaristia è il vertice del dono, la lavanda dei piedi ne è l’alfabeto quotidiano.

Nella logica di Gesù non si può separare il culto dalla vita, il rito dall’esistenza: ciò che celebriamo con il pane e il vino va tradotto con l’acqua e il grembiule nelle relazioni di ogni giorno.

Ed è qui che risuona il versetto che la liturgia ci pone come acclamazione al Vangelo: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 13,34).

Il “come” è la novità. Non basta un amore generico. Non è sufficiente la gentilezza a intermittenza.

L’unità di misura è Gesù stesso, il suo abbassarsi, il suo lavare, il suo morire e risorgere per noi.

E se resta difficile immaginare un amore così grande, questa sera la lavanda dei piedi lo rende visibile, tangibile.

Il Signore ci prende per mano e ci mostra la traiettoria: dall’altare al fratello, dalla fraternità vissuta alla tavola eucaristica alla fraternità scelta e custodita fuori da questo luogo.

Comprendiamo allora che la speranza non è uno slancio astratto dell’anima, ma sgorga precisamente da questa dinamica di amore‑servizio.

Quando ci chiniamo sui piedi feriti dell’altro – fossero anche solo i piedi stanchi di un anziano, la vita disorientata di un giovane, la solitudine di chi non ha più nessuno – manifestiamo che la storia non è in balìa dell’indifferenza, ma attraversata da una rivoluzione mite e potente.

Il Giubileo desidera renderla visibile alle periferie della terra: uomini e donne che non aspettano passivamente tempi migliori, ma si fanno essi stessi segno che il Regno è già in mezzo a noi.

Fratelli e sorelle, lasciamoci dunque lavare i piedi dal Signore; non opponiamo resistenza al suo grembiule, come Pietro che inizialmente protestava: «Signore, tu lavi i piedi a me?» (Gv 13,6).

Accogliere questo gesto significa permettere a Gesù di toccare la parte più vulnerabile della nostra vita, la polvere che portiamo addosso.

Solo chi si lascia amare così può diventare capace dello stesso amore.

È come un passaggio di consegna: il Maestro si abbassa su di noi perché noi possiamo chinare il cuore sul mondo.

Così l’Eucaristia celebrata diventa Eucaristia vissuta, e la notte antica dell’Esodo si prolunga in ogni piccolo esodo dalla nostra autosufficienza verso l’altro.

Questa sera, vorrei chiedere – per me e per voi – tre grazie:

  • la grazia della memoria riconoscente di ciò che Dio ha già compiuto;
  • la grazia della gratitudine che trasforma il pane e il vino in disponibilità a donarci;
  • la grazia di un amore distintivo, capace di far dire a chi ci incontra: “Ecco, costoro hanno imparato da Gesù a servire”.

Se faremo spazio a queste grazie, il Giubileo non resterà un evento da calendario, ma un tempo di rinascita per ciascuno di noi, per le nostre famiglie, le nostre comunità, le nostre Confraternite, la nostra società desiderosa di speranza.

Entriamo, dunque, in questo grande “passaggio” con lo stupore dei discepoli e con il coraggio di chi è già stato raggiunto dalla salvezza.

L’agnello pasquale dell’Esodo ci spalanchi alla libertà, il calice di Corinto ci apra al futuro, il grembiule di Giovanni ci insegni la via dell’amore che si fa servizio. E la speranza, che viene da Dio, diventi in noi un dono contagioso.

Amen!

+ Sabino Iannuzzi