Semeraro: "Generare, coinvolgere, fruttificare: sono le tre azioni pastorali che il Papa affida alla nostra considerazione".

La corresponsabilità è un processo da tenere vivo

In allegato il testo della relazioni di S.E.R. Mons. Marcello Semeraro tenuta al Convegno ecclesiale diocesano di Castellaneta il 15 ottobre 2018

 

Edificare comunità corresponsabili

Il verbo «edificare» – scelto per il titolo del mio intervento – fa riferimento al mondo architettonico ed ha una indubbia pertinenza con la Chiesa, la cui intima natura, come ci ricorda il Concilio Vaticano II, «ci si fa conoscere attraverso immagini varie» (Lumen gentium n. 6). Ora, non sono davvero poche le ricorrenze bibliche dove la Chiesa è descritta come un edificio![1] In rapporto a questa immagine, diversamente dal restaurare, ripristinare, riparare ecc., il verbo «edificare» ha come proprio significato quello di dare avvio, inizio ad una nuova costruzione. Penso, allora, che nel trattare il tema assegnatomi non si debba da parte questo significato di «cominciamento».

Cosa, allora, s’intende, quando usiamo questo verbo, riguardo alle nostre comunità? Forse consolidare delle scelte, dei comportamenti e degli stili di vita? Oppure fare un’opera di restauro, di lifting che eventualmente, ripulisce, riporta alla luce, riprende elementi trascurati, o messi in ombra, ma non cambia nulla? O, anche, s’intende fare un’opera di riforma? A questo punto, però, rischiamo d’entrare in una serie di numerose domande, alle quali non c’è di sicuro il tempo per dare risposte. Riforma, però, è una parola adatta, che merita attenzione.[2] Rimanendo nel linguaggio architettonico, riguardo agli edifici diciamo che possono essere ristrutturati. Il verbo ristrutturare in questo caso significa strutturare su nuove basi e in forme diverse un edificio: così inteso si avvicina a un senso per noi accettabile di «riforma» perché esprime il senso della continuità e, al tempo stesso, quello della risposta a esigenze e domande nuove.

Nell’Udienza generale del 13 ottobre 1965 il cui Leitmotiv fu l’esortazione ad amare la Chiesa, Paolo VI, di cui ieri Francesco ha dichiarato la santità disse:

Vi è un’altra linea, un altro metodo d’interesse per il rinnovamento della Chiesa, quello che mira non al distacco o all’allontanamento dalla sua strutturazione organica, concreta e unitaria, ma al suo avvicinamento all’accrescimento della sua vitalità, cioè della sua santità e della sua capacità di rendere vivo e attuale il Vangelo. Questo è il metodo dell’instancabile riforma, di cui parla la Costituzione conciliare sulla Chiesa, affinché essa seipsam renovare non desinat, non dia mai tregua al suo rinnovamento (Lumen Gentium n. 9).

Quanto a Papa Francesco, la riforma della Chiesa, come disse nel Discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2016, deve seguire l’antico adagio che illustra la dinamica degli Esercizi Spirituali nel metodo ignaziano, ossia: deformata reformare, reformata conformare, conformata confirmare e confirmata transformare.

Anche nel nostro caso, dunque, come quando si dà mano a un’opera, è doveroso porsi alcune domande: perché lo faccio? a che scopo? in quale contesto devo operare? ciò che faccio dovrà essere utile solo a me, oppure anche ai miei figli, a chi verrà dopo di me? e, se è così, quali saranno la mie scelte? Come chi «progetta» deve guardare avanti, così anche in teologia pastorale, oggi. È doveroso, allora, porsi domande di questo tipo: come sarà il cristianesimo, domani? Come saranno, domani, le nostre comunità parrocchiali? Sono domande sempre opportune, quando ci si propone di edificare comunità corresponsabili.[3]

A partire da qui, sorge un altro tipo d’interrogativi: sono corresponsabili, le nostre comunità? Nel discorso di apertura (3 ottobre 2018) dell’Assemblea del Sinodo dei Vescovi ancora in corso, Francesco ha detto che occorre superare con decisione la piaga del clericalismo. Egli l’ha denunciato come una perversione che

nasce da una visione elitaria ed escludente della vocazione, che interpreta il ministero ricevuto come un potere da esercitare piuttosto che come un servizio gratuito e generoso da offrire; e ciò conduce a ritenere di appartenere a un gruppo che possiede tutte le risposte e non ha più bisogno di ascoltare e di imparare nulla, o fa finta di ascoltare.

Alla luce di questi interrogativi, nel mio intervento cercherò di commentare, adattandolo al nostro argomento, quello che il Papa ha scritto in Evangelii gaudium n. 223:

Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci.

Generare, coinvolgere, fruttificare: sono le tre azioni pastorali che il Papa affida alla nostra considerazione. In qualche maniera esse si sovrappongono e si compongono con quegli altri verbi che troviamo in Evangelii gaudium n. 24: «La Chiesa “in uscita” è la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano».

Sono tutti verbi di azione, come può vedersi, che, facendoci uscire dal campo semantico dell’architettura – che occupa lo spazio –, ci collocano, piuttosto, in quello dei «processi», ossia dello sviluppo e dello svolgersi nel tempo. È una «opposizione»,[4] questa, che al Papa piace sottolineare, quando scrive, ad esempio che «dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce» (Evangelii gaudium n. 223). Si tratta, come avverte lo stesso Francesco, di un

criterio molto appropriato per l’evangelizzazione, che richiede di tener presente l’orizzonte, di adottare i processi possibili e la strada lunga […]. La parabola del grano e della zizzania (cf. Mt 13, 24-30) descrive un aspetto importante dell’evangelizzazione, che consiste nel mostrare come il nemico può occupare lo spazio del Regno e causare danno con la zizzania, ma è vinto dalla bontà del grano che si manifesta con il tempo» (Ivi n. 225).

 

Per una «futurologia pastorale»

Nel discorso di apertura dell’assemblea sinodale, che ho citato, Francesco ha incoraggiato a «frequentare il futuro»: un compito che il Papa stesso descrive come una missione di

far germogliare sogni, suscitare profezie e visioni, far fiorire speranze, stimolare fiducia, fasciare ferite, intrecciare relazioni, risuscitare un’alba di speranza, imparare l’uno dall’altro, e creare un immaginario positivo che illumini le menti, riscaldi i cuori, ridoni forza alle mani, e ispiri ai giovani – a tutti i giovani, nessuno escluso – la visione di un futuro ricolmo della gioia del Vangelo.

Credo sia un progetto meritevole di attenzione per chi intende «edificare comunità corresponsabili». In proposito, ricordo che l’ultimo volume (il quarto) della sua Teologia pastorale P. M. Zulehner lo intitolò: «Futurologia pastorale».[5] L’espressione potrebbe destare qualche sorpresa; si tratta, però, di un dovere importante per la nostra pastorale, la quale non ha (sol-)tanto il compito di gestire il presente, ma anche quello di cogliere i dinamismi e i movimenti della storia ed entrare così nel cuore delle attese e delle speranze delle persone.

Come l’educazione, infatti, anche la pastorale non può navigare a vista; ha bisogno, invece,

che le si imprima una direzione, che non la si abbandoni alla deriva della casualità, dell’accidentalità e del fortuito… Ha bisogno della sagacia umana, delle sue idealità lungimiranti, generose; per ritrovare se stessa e per aiutarci a non smarrire le nostre e le sue mete.

Sono parole – queste appena riferite – di D. Demetrio (un filosofo dell’educazione, che negli anni passati ha dato importanti contributi al rinnovamento della catechesi nella regione ecclesiastica pugliese) scritte a proposito dell’educazione,[6] ma che valgono per molti aspetti anche per ’azione pastorale.

Per futurologia pastorale Zulehner intendeva «l’esposizione degli sviluppi rilevanti per il futuro, lo studio dell’importanza dell’utopia cristiana per far fronte alle sfide che ci attendono lungo il cammino verso il futuro e infine quei modelli di azione che risultano adatti a una prassi efficace della Chiesa in ordine al futuro».[7] Siamo in una fase storica caratterizzata da cambiamento non solo profondi, addirittura radicali, ma anche rapidi. Viviamo in «un mondo che cambia», come ripetono da un po’ di anni anche alcuni documenti ufficiali dell’episcopato italiano. Per di più, diversamente da quanto nei nostri contesti occidentali avvenne negli anni ’60, oggi i mutamenti non suscitano più aspettative utopiche; le attese, anzi, sono distopiche ed è avviato pure quel processo che acutamente Z. Bauman ha denominato retrotopia.[8]

Siamo, dunque, un po’ storditi, affannati. Qual è, a questo punto, il principale nostro dovere? Possiamo bene riassumerlo (ma già lo stesso Zulehner lo suggeriva) nel discernimento dei segni dei tempi: è una attenzione che ci mette pure in condizione di cogliere i «segnali» che ci giungono dai tempi presenti per compiere, oggi, delle scelte che ci facciano «responsabili» nei riguardi delle nuove generazioni.[9]

Quanto, poi, al discernimento, è davvero singolare che il p. B. Häring – grande maestro di teologia morale (e discepolo di quel sant’Alfonso M. de Liguori che ha plasmato tanta parte della devozione cristiana soprattutto nel nostro Meridione d’Italia), abbia inserito anche il discernimento tra quelle che egli designa virtù escatologiche, ossia quelle virtù che ci rendono capaci di cogliere il kairos di Dio, cogliendo cioè le opportunità presenti e inserendole nel dinamismo della storia della salvezza; storia sia della fedeltà sia della misericordia nella santità, alla quale noi partecipiamo in Cristo crocifisso e risorto.

 

Il discernimento dei «segni dei tempi» nel magistero del Vaticano II

Vogliamo, dunque, raccogliere un compito che, sulla scia di alcune intuizioni di Giovanni XXIII, fu messo in risalto dal Concilio Vaticano II laddove, al n. 4 della costituzione pastorale Gaudium et spes, scrive che

è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche.

È doveroso, però, prima di accennare al magistero conciliare in questo ambito, sottolineare che si tratta di un insegnamento inevitabilmente legato al momento storico. Gaudium et spes, difatti, si mostra ben consapevole di vivere una fase storica di profonde mutazioni e ne dà avvertimento già ai nn. 5-8, ritrovandole nell’ordine sociale, psicologico, morale e religioso al punto da essere all’origine di non pochi squilibri (cf. n. 10). Non c’è dubbio, però, che il clima generale che, pure nella Chiesa si respirava in quegli anni, era alquanto ottimistica circa la situazione storica.

La situazione storica profondamente mutata – come già ricordato – rende il discernimento dei segni dei tempi più difficile, ama anche più necessario. Ma è proprio di questo che il testo conciliare avverte subito: si tratta di un dovere quanto mai urgente (officium incumbit), che nasce dalla consapevolezza che Dio continua a guidare il mondo e che, attraverso la voce dello Spirito che risuona anche negli avvenimenti della storia, continua a rivolgere il suo appello agli uomini di tutti i tempi. La «lettura» dei segni dei tempi, perciò, è prima d’ogni cosa un dovere davanti a Dio: egli non è un principio che governa il mondo, ma è una Persona che parla (la Dei loquentis persona, direbbe K. Barth, ma l’espressione si trova già in san Tommaso). Dio parla e interpella: nostro dovere è rispondergli.

Quanto ai segni dei tempi, poi, il testo conciliare fa ricorso al verbo latino perscrutare, che rimanda a un’indagine attenta, ad una diligente inchiesta come per un esame. Aggiunge pure che essi vanno interpretati: non si dovrà, dunque, perdere il proprio tempo piangendo sulla cattiveria dei nostri giorni e illudendosi con i «se soltanto», «se si fosse» … Vale, anche in questo caso, quanto B. Spinoza scrisse all’inizio del suo Tractatus Politicus, la sua ultima opera rimasta incompiuta: «curavi, humanas actiones non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere» (I, 4). Potremmo tradurre e adattare così: preoccuparsi di non disdegnare i tempi in cui viviamo, né di piangervi sopra, o di condannarli, ma di comprenderli e di interpretarli alla luce del Vangelo (sub Evangelii luce).

Scopriremo sempre la calligrafia del Signore prima di volgere la nostra attenzione alle linee storte su cui egli scrive. Scopriremo pieni di gratitudine i segni dei tempi positivi e giovevoli; poi saremo in grado di affrontare anche i segni che ci sfidano… La vigilanza ci fornisce il discernimento a riguardo delle priorità, ma dirige la nostra attenzione anche sui piccoli passi e sulle difficoltà temporanee, che sono come degli iati necessari che preparano ai passi e alle decisioni future più importanti.[10]

Un’altra cosa, forse, occorre precisare quanto ai segni dei tempi ed è che essi non vanno semplicemente «scrutati», «letti», «interpretati», «valutati» … Tutto questo è certamente molto importante e lo è anzitutto come un forte richiamo per noi, se questi segni dei tempi non li abbiamo neppure cercati, oppure se, paghi di un presente a noi soddisfacente, ci siamo limitati a leggerli passivamente, o fatalisticamente, in attesa, magari, che qualcun altro avrebbe fatto la storia!!!

Di rabbi Hillel il vecchio si riferisce un aforisma che comincia così: «Se non sono io per me, chi è per me?» (Pirkei Avot, I.14). Applicandolo a noi, diremmo che i segni dei tempi vanno anche creativamente promossi! Il discernimento, infatti, non è un esercizio letterario, bensì un processo nel quale si individuano i criteri per una scelta.[11] Noi cristiani, d’altronde, siamo chiamati a essere anzitutto non lettori della storia, ma prima d’ogni cosa facitori di storia, sulla scia di chi «ha cominciato a fare e poi a insegnare» (At 1,1).[12]

Quanto ai segni dei tempi, altre indicazioni Gaudium et Spes le offre più avanti, dove si legge:

Il popolo di Dio, mosso dalla fede con cui crede di essere condotto dallo Spirito del Signore che riempie l’universo, cerca di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni, cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza o del disegno di Dio. La fede infatti tutto rischiara di una luce nuova, e svela le intenzioni di Dio sulla vocazione integrale dell’uomo, orientando così lo spirito verso soluzioni pienamente umane (n. 11).

Qui si ricorre esplicitamente al verbo discernere[13] con uno specifico rimando non già ad un ambito puramente interiore e personale (come, ad esempio, nella tradizione spirituale), ma a un campo d’azione pubblico e dalle ampie prospettive sì da riguardare, in ultima analisi, la concreta presenza e azione dei cristiani nella vita sociale e politica e alle loro scelte. Si tratta, infatti, come si legge in un sussidio preparatorio al 2° convegno ecclesiale nazionale della Chiesa italiana (Loreto 1985) di

entrare nel vivo della storia e nel tessuto concreto dell’esistenza: conoscere la vita dell’uomo, le sue contraddizioni, i problemi nuovi che toccano da vicino, svelare il senso e fare esercizio di sapienza cristiana traducendo in progetti e in concretezza le analisi secondo la legge dell’incarnazione.

Questo molto interessante documento indica pure le esigenze di un tale discernimento, che sono:

  1. l’umile disponibilità a lasciarsi interpellare dagli avvenimenti del nostro tempo in quanto in essi si manifesta – pur nella drammaticità e nella ambiguità del peccato – la presenza e l’azione dello Spirito, e perché attraverso essi Dio chiama la sua Chiesa al rinnovamento;
  2. una costante capacità profetica d’interpretare la storia e gli avvenimenti in atteggiamento di ascolto e di riflessione per avvertire il disegno di Dio che “viene a salvarci” (cf. Is 35,4);
  3. un rinnovato impulso missionario che spinge la Chiesa a proclamare “il Vangelo della riconciliazione” e ravviva la speranza nella salvezza definitiva già presente, in virtù dello Spirito, tra le pieghe dell’esistenza umana;
  4. la volontà di servizio all’uomo e alla comunità degli uomini, assumendone gioie e problemi, aspirazioni e attese, dolori e riscatti, per rendersi partecipe della vita di tutti e serva soprattutto degli ultimi che sono i primi nella logica di Dio.[14]

Dal brano conciliare, poi, noi possiamo cogliere alcuni elementi fondamentali, che sintetizzerei in questi quattro punti.

  1. Dio lascia sempre nella storia dei «segni», delle tracce della sua presenza, della sua azione, dei suoi progetti. Dio non sorvola la storia lasciandovi dall’alto al massimo delle ombre, ma la guida dal di dentro e la sospinge con la forza del suo Spirito «che riempie l’universo» (Sap 1, 7). Da qui lo stupore e la meraviglia: mentre il mondo invecchia, Dio lo rinnova con l’energia potente dello Spirito che opera in noi.[15]
  2. I segni nei quali siamo chiamati a individuare l’opera rinnovatrice dello Spirito nel mondo sono gli avvenimenti, le richieste e le aspirazioni, cui il popolo di Dio prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo. Non è possibile, in realtà, alcun discernimento se non si è convinti che nel nostro mondo è sempre e comunque impressa la traccia dell’Eterno.
  3. È pure necessario essere convinti che tutti i «segni» e le impronte lasciate da Dio nella storia dell’uomo (anche attraverso l’uomo e, in particolare, quell’«uomo» che è Gesù Cristo, il Figlio eterno di Dio che si è fatto uomo), assunti nella loro globalità, interpretati e valutati in un’ottica teologica opportunamente ripensata, evidenziano altrettanti compiti storici; meglio, si trasformano in imperativi pastorali, che le comunità cristiane sono chiamate a rendere operativi mediante le scelte che necessariamente conseguono ad un serio discernimento.
  4. La quarta cosa che è importante cogliere dal brano conciliare è che il «soggetto» chiamato a operare questo discernimento è il popolo di Dio.[16] Non, dunque, un soggetto individuale, ma un soggetto in compagnia. Un soggetto storico. Un soggetto che accompagna ed è accompagnato. Nel linguaggio del Vaticano II, infatti, «popolo di Dio» dice tutti i fedeli battezzati. Secondo un’espressione agostiniana: «dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici».[17] La conseguenza è che, pur nel rispetto dei ruoli specifici derivante dalla mirabile varietà di ministeri e carismi secondo cui è organizzata la Chiesa (cf. Lumen gentium n. 32), l’opera del discernimento non è intesa come compito di un singolo, ma come responsabilità comune. Altrettanto comune, viceversa, è il dovere d’individuare e denunciare gli anti-segni che a causa del peccato di tutti impediscono il vero progresso e ritardano l’azione di liberazione globale.

 

Azioni che generano nuovi dinamismi

È importante, a questo punto, riprendere il proposito iniziale individuato alla luce di Evangelii gaudium n. 223: «privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi [nella società] e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci». Ora, cosa vuol dire privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi? Penso sia utile comprenderlo alla luce della stessa esortazione apostolica.

Una prima indicazione la troviamo al n. 33, dov’è scritto che «la pastorale in chiave missionaria esige di abbandonare il comodo criterio pastorale del “si è fatto sempre così”». A questo punto Francesco invita tutti

ad essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità. Una individuazione dei fini senza un’adeguata ricerca comunitaria dei mezzi per raggiungerli è condannata a tradursi in mera fantasia.

In queste brevi frasi sono da distinguere due aspetti molto importanti. Il primo consiste nell’individuazione del paradigma («missione paradigmatica») della missionarietà, che risponde alla domanda: cosa posso fare perché giunga agli altri l’annuncio del Vangelo?[18] Il secondo aspetto riguarda la coerenza di far conseguire al paradigma un programma («missione programmatica»), che al n. 27 di Evangelii gaudium è così esemplificato:

Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di “uscita” e favorisca così la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia.

Una seconda indicazione è presente al n. 35 dell’esortazione apostolica:

Una pastorale in chiave missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine che si tenta di imporre a forza di insistere. Quando si assume un obiettivo pastorale e uno stile missionario, che realmente arrivi a tutti senza eccezioni né esclusioni, l’annuncio si concentra sull’essenziale, su ciò che è più bello, più grande, più attraente e allo stesso tempo più necessario. La proposta si semplifica, senza perdere per questo profondità e verità, e così diventa più convincente e radiosa.

Qui il Papa fa riferimento alla dottrina conciliare presente nel decreto Unitatis redintegratio della gerarchia delle verità (cf. Evangelii gaudium nn. 36. 246) cui accosta quella tomista della gerarchia «nelle virtù e negli atti che da essa procedono» (cf. Evangelii gaudium n. 37). Sono, a ben vedere, i criteri che orientano le scelte pastorali in rapporto alla famiglia di Amoris laetitia.

Altra indicazione importante è, in terzo luogo, operare un discernimento tra quanto, nelle consuetudini proprie non direttamente legate al nucleo del Vangelo, vanno conservate e quali, al contrario debbono essere lasciate cadere: perché non sono più interpretate allo stesso modo che all’origine, perché il loro messaggio non è più adeguatamente percepito, o non hanno più la stessa forza educativa come canali di vita. «Possono essere belle, però ora non rendono lo stesso servizio in ordine alla trasmissione del Vangelo. Non abbiamo paura di rivederle» (Evangelii gaudium n. 43).[19]

Questa indicazione il Papa l’ha ripetuta a voce alta nell’Omelia del 14 ottobre 2018 durante la Messa con la canonizzazione di Paolo VI, O. A. Romero e altri cinque Beati. Ha detto:

Chiediamoci da che parte stiamo. Chiediamoci a che punto siamo nella nostra storia di amore con Dio. Ci accontentiamo di qualche precetto o seguiamo Gesù da innamorati, veramente disposti a lasciare qualcosa per Lui? Gesù interroga ciascuno di noi e tutti noi come Chiesa in cammino: siamo una Chiesa che soltanto predica buoni precetti o una Chiesa-sposa, che per il suo Signore si lancia nell’amore? Lo seguiamo davvero o ritorniamo sui passi del mondo, come quel tale? Insomma, ci basta Gesù o cerchiamo tante sicurezze del mondo? Chiediamo la grazia di saper lasciare per amore del Signore: lasciare ricchezze, lasciare nostalgie di ruoli e poteri, lasciare strutture non più adeguate all’annuncio del Vangelo, i pesi che frenano la missione, i lacci che ci legano al mondo. Senza un salto in avanti nell’amore la nostra vita e la nostra Chiesa si ammalano di «autocompiacimento egocentrico» (Evangelii gaudium n. 95): si cerca la gioia in qualche piacere passeggero, ci si rinchiude nel chiacchiericcio sterile, ci si adagia nella monotonia di una vita cristiana senza slancio, dove un po’ di narcisismo copre la tristezza di rimanere incompiuti.

Parlando, da ultimo, di azioni che generano nuovi dinamismi a me pare che Francesco chieda di entrare in un tipo di pastorale che io abitualmente chiamo «generativa». Con questa formula non intendo affatto indicare un modello pastorale «nuovo», ma richiamare un principio stesso dell’azione ecclesiale (pastorale), che dipende dalla convinzione che tra la generazione alla vita umana e la generazione alla vita di fede esiste una fondata analogia, anzi un rapporto che potremmo chiamare intrinseco. Si tratta, per questo, di una pastorale che, intendendo anzitutto generare alla fede, non s’interessa prima di tutto della salvaguardia dell’istituzione e delle sue strutture; invece le stanno a cuore anzitutto le persone.[20]

È la pastorale «artigiana», di cui ha scritto Francesco in Amoris laetitia nel punto in cui tratta del compito generativo alla fede proprio della famiglia: «è un compito “artigianale”, da persona a persona» (n. 16). Artigianale, lo sappiamo, è quel lavoro che mette persone in relazione reciproca; anche la pastorale è artigianale quando è una pastorale relazionale. Non si dimenticherà, in proposito, che al Convegno della Chiesa italiana a Verona del 2006 si disse esplicitamente che era necessario mettere la persona al centro dell’azione pastorale. Dopo Verona, i Vescovi italiani osservavano che

l’attuale impostazione pastorale, centrata prevalentemente sui tre compiti fondamentali della Chiesa (l’annuncio del Vangelo, la liturgia e la testimonianza della carità), pur essendo teologicamente fondata, non di rado può apparire troppo settoriale e non è sempre in grado di cogliere in maniera efficace le domande profonde delle persone: soprattutto quella di unità, accentuata dalla frammentazione del contesto culturale». In questo senso, si spiegava che «mettere la persona al centro costituisce una chiave preziosa per rinnovare in senso missionario la pastorale e superare il rischio del ripiegamento, che può colpire le nostre comunità. Ciò significa anche chiedere alle strutture ecclesiali di ripensarsi in vista di un maggiore coordinamento, in modo da far emergere le radici profonde della vita ecclesiale, lo stile evangelico, le ragioni dell’impegno nel territorio, cioè gli atteggiamenti e le scelte che pongono la Chiesa a servizio della speranza di ogni uomo».[21]

Si diceva pure che

in un contesto sociale frammentato e disperso, la comunità cristiana avverte come proprio compito anche quello di contribuire a generare stili di incontro e di comunicazione. Lo fa anzitutto al proprio interno, attraverso relazioni interpersonali attente a ogni persona. Impegnata a non sacrificare la qualità del rapporto personale all’efficienza dei programmi, la comunità ecclesiale considera una testimonianza all’amore di Dio il promuovere relazioni mature, capaci di ascolto e di reciprocità.[22]

In questa linea si collocano pure gli Orientamenti CEI per l’annuncio e la catechesi in Italia Incontriamo Gesù (29 giugno 2014):

Abitare con passione, compassione e speranza la quotidianità è una delle esperienze umane più belle che possiamo mettere in atto. Visitare e accompagnare – con la misericordia che viene da Dio solo – la storia delle donne e degli uomini è il più grande atto di amore. È anche il modo più bello, per annunciare il Vangelo, per mostrare a tutti il dono di vita buona che esso contiene. Il primo annuncio è fecondo proprio perché permette al cristiano di entrare nel territorio affascinante degli interrogativi e delle esperienze umane come soglie di senso. Possono essere valorizzate, anzitutto, le occasioni offerte dall’esistenza, soprattutto i momenti forti attraverso i quali tutti gli uomini e le donne passano: l’essere generati, l’iniziazione degli adolescenti e dei giovani alla vita, la scelta vocazionale al matrimonio, al sacerdozio o alla vita consacrata, la professione e la fedeltà nella vita adulta, la fragilità, la disabilità e la malattia, le gioie e i lutti, l’esperienza della morte. Le «soglie della vita» sono un momento propizio per il primo annuncio del Vangelo, perché in questi snodi ogni uomo o donna sperimenta che la vita è «di più», vale più di ciò che noi produciamo; sono snodi che provocano ad aprire il cuore e la mente al dono di Dio. In questa direzione, diventano luoghi di annuncio i «cinque ambiti» messi in luce nel Convegno ecclesiale nazionale di Verona: la vita affettiva, il rapporto tra lavoro e festa, le esperienze personali e sociali della fragilità, le forme della tradizione, i mondi della cittadinanza. Ognuno di questi ambiti fa incontrare le esperienze costitutive della vita umana: possono rivelarsi occasioni preziose per la porta della fede, dove sentire la presenza di Gesù che guarisce, consola, sprona, accompagna e apre alla speranza. (n. 36)

 

Coinvolgendo altre persone

La soggettualità del popolo di Dio, di cui si è parlato quanto alla responsabilità del discernimento dei segni dei tempi, comporta che quanti nella comunità hanno il compito della guida (vescovo e presbiteri, in particolare) proprio quando esercitano la loro responsabilità non possono e non debbono contare soltanto su se stessi; devono, al contrario, ascoltare «volentieri (libenter) il parere dei laici, tenendo conto con interesse fraterno delle loro aspirazioni e giovandosi della loro esperienza e competenza nei diversi campi dell’attività umana, in modo da poter insieme discernere (recognoscere) i segni dei tempi” (Presbyterorum ordinis n. 9). Questo c’introduce in quel principio di «Chiesa sinodale», che è uno dei frutti più promettenti dell’ecclesiologia conciliare e che oggi, grazie all’impulso di Francesco, conosce una felice stagione di rilancio.

Per descrivere la sinodalità farò ricorso a un documento della CTI pubblicato nel maggio scorso: «La sinodalità [nel contesto ecclesiologico della communio], indica lo specifico modus vivendi et operandi della Chiesa Popolo di Dio che manifesta e realizza in concreto il suo essere comunione nel camminare insieme, nel radunarsi in assemblea e nel partecipare attivamente di tutti i suoi membri alla sua missione evangelizzatrice» (n. 6). Comprendiamo subito, allora, che la sinodalità è anzitutto uno stile! Cosa vuol dire?

Anzitutto che la sinodalità non comporta in primo luogo la convocazione di sinodi, riunioni, assemblee, o altro: per secoli, difatti, almeno nella Chiesa latina e occidentale, sono stati celebrati dei «sinodi», ma senza «sinodalità». Con ciò non intendo affatto smentire il valore dei nostri incontri, delle nostre riunioni, dei nostri convegni. Valgono, però, se esprimono e incoraggiano la sinodalità. Si dovrebbe aggiungere molto sull’argomento; mi esimo, però, dal farlo e non soltanto per ragioni di tempo. Per un approfondimento su questo tema, infatti, avete nel presbiterio di questa Diocesi uno che è maestro e che, molto opportunamente, saprà inquadrare il valore teologico ed ecclesiale degli organismo diocesani e parrocchiali di partecipazione nel contesto della fraternità come stile ecclesiale partecipativo.[23]

Ritengo, tuttavia, utile dire almeno alcune che, in sé, la sinodalità non comporta immediatamente il fatto di prendere delle decisioni! Trovare un accordo e giungere a delle decisioni – anche se con maggioranza – non è (almeno ancora) sinodalità. Possono, difatti, esservi delle scelte fatte «a maggioranza», che però non esprimono un con-venire (un percorso compiuto insieme), ma soltanto un’intesa umana, una «convenzione»: non sono un con-ventus, ma una «conventicola»! Nella vita della Chiesa, peraltro, non esiste un «diritto della maggioranza» bensì, unicamente (come direbbero Cipriano e Agostino), un «diritto della comunione». Ne segue che pure una unanimità di suffragi in un consiglio è «ecclesiale» solo quando esprime un discernimento cresciuto attraverso l’apporto dei carismi di tutti e dove ciascuno vive con serietà la propria vocazione cristiana.[24]

Tutte queste puntualizzazioni dicono solo una cosa: la sinodalità non è un «fatto», ma è un «processo» vissuto nella faticosa tensione fra il «procedere» (-odos) e il vivere, o stare «insieme» (-syn). Occorre, pertanto, avere sempre le ragioni del vivere insieme nella Chiesa, ossia riconoscere il valore della communio. In una comunità ci si dovrebbe (almeno di tanto) in tanto domandare: quali sono i motivi per cui io sono in questa comunità? Quali le ragioni che mi ci conservano, nonostante la tentazione non rara di allontanarmi, di andare via, di starmene per i fatti miei? E fra queste, quali sono le ragioni più forti? In fin dei conti le ragioni dovrebbero stare nel Battesimo e nella testimonianza! È pertanto necessario che ci sia un’accoglienza convinta e «non-finta» di queste ragioni e di questi scopi, che devono convertirsi – ossia fatti confluire – in carità e speranza.

Ci sarebbe anche da riflettere seriamente, ancora, su quanto intende Francesco quando afferma che «una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, nella consapevolezza che ascoltare “è più che sentire”. È un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare».[25] Il 17 settembre scorso il Papa ha incontrato alcuni giovani di Grenoble. Nel dialogo intessuto con loro ha pure parlato dell’apostolato dell’orecchio e ha detto:

prima di parlare, ascoltare. L’apostolato “dell’orecchio”: sentire, ascoltare. “E poi, padre, parlare?”. No, fermati. Prima di parlare, fare. Una volta, un giovane universitario mi ha fatto questa domanda: “Io nell’università ho tanti amici che sono agnostici, cosa devo dirgli perché diventino cristiani?”. Io ho detto: l’ultima cosa che tu devi fare è dire delle cose. L’ultima. Prima devi fare, e lui vedrà come tu gestisci la vita. Sarà lui a domandarti: “Perché fai questo?”. E allora lì puoi parlare. La testimonianza prima della parola. Questa è la cornice del messaggio cristiano. Ecouter, faire, e poi dire, parlare.

 

Altri testimoni, che lo porteranno avanti

Non meno importante di quanto sin qui ricordato è l’avvertimento di Francesco a quanti intendono «privilegiare le azioni che generano»: occorre farlo coinvolgendo altre persone, ma pure avviando una consegna ad altre persone e gruppi che le porteranno avanti. È la legge della traditio: «vi trasmetto quello che ho ricevuto…», scrive due volte san Paolo in 1Cor (11, 23; 15, 3). Non operare «consegne» è l’opposto della «responsabilità»

Ma il «consegnare» è pure riconoscimento che l’atto che sigilla la generatività è sempre il lasciar andare! Come nella generazione umana, anche nella generatività sociale. E questo non è solo fiducia nell’opera educativa, ma pure rispetto della libertà.

I legami intersoggettivi non sono certo ritenuti incompatibili con la libertà individuale, anzi vengono ricercati per un equilibrato sviluppo della persona. Ma si sottolinea che ognuno deve poter decidere quali creare e in che misura lasciarsene vincolare. Non si possono più accettare strutture comunitarie e forme di autorità che a priori possano condizionare la vita dell’individuo […]. (Dobbiamo andare avanti) nello sforzo di mettere in luce l’importanza della libertà di scelta, facendo emergere in ciascuno l’io che ne è la condizione e rendendo così reale quella soggettività che la libertà di autonomia suppone e che invece non c’è; nell’individuare e proporre alle persone delle proposte di senso in cui la loro libertà di scelta si possa impegnare, attuando quell’andar oltre che è la condizione per realizzarsi veramente nel fare accedere le persone alla logica della cooperazione e nell’evidenziare la responsabilità che essa comporta.[26]

Ciò che, però, in fin dei conti rende possibile la traditio cristiana è la «testimonianza». Non si passano di mano in mano testi sacri, programmi e progetti, ma la vita! Conosciamo, d’altra parte, il mandato di Gesù: «Di questo voi siete testimoni» (Lc 24, 48). Il testo è nel vangelo secondo Luca e gli esegeti commentano che per questo evangelista l’essere testimoni è addirittura più importante dell’essere apostoli.[27] Siamo condotti, così, alla pietra decisiva per la edificazione di una comunità ed è la testimonianza. Il mandato di Gesù conclude il racconto del suo incontro con i due discepoli ad Emmaus e apre al dono dello Spirito:

La memoria di questa esperienza è la condizione della testimonianza: voi, che avete fatto l’esperienza di sentirvi amati gratuitamente, condividete con gli altri questa esperienza. Di questo siamo testimoni, non di altro. Testimoni del fatto di essere stati giustificati, mentre meritavamo di essere condannati. Occorre parlare al plurale: Gesù ci rende testimoni. Fin dall’inizio la Chiesa nasce al plurale, non come esperienza individuale di singoli, ma come comunità che fa esperienza insieme di un perdono e, come comunità, viene inviata ad annunciare con la vita insieme l’esperienza della misericordia. La testimonianza di fede è fin dall’inizio condivisa, non personalistica.[28]

 

Convegno Ecclesiale Diocesano

Castellaneta, 15 ottobre 2018.

 

+ Marcello Semeraro

 

NOTE AL TESTO

[1] Sarà sufficiente considerare sotto questo profilo i riti della Dedicazione di una chiesa per cogliere tutta la ricchezza simbolica di questa immagine; cf. F. Trudu, “Haec aedes mysterium adumbrat Ecclesiae”. Immagini simboliche dell’Ecclesia nel Rito di Dedicazione della Chiesa, CLV-Edizioni Liturgiche, Roma 2001.

[2] Si potranno vedere i saggi raccolti in A. Spadaro, C. M. Galli (edd.), La riforma e le riforme nella Chiesa, Queriniana, Brescia 2016.

[3] Per queste domande e relative proposte pastorali, cf. E. Biemmi, «Comunità profetiche per un discernimento inclusivo», in Diocesi Suburbicaria di Albano, Tra il dire e il fare. Un discernimento incarnato e inclusivo, MiterThev, Albano Laziale 2018, 65-79.

[4] Si tratta di «opposizione» e non di «contraddizione», da intendersi alla luce della guardiniana «opposizione polare», che Bergoglio apprese all’epoca della stesura (incompiuta) della tesi dottorale. Della «opposizione polare» lo stesso Guardini scriveva ch’è, in sostanza, la «teoria del confronto, che non avviene come lotta contro un nemico, ma come sintesi di una tensione feconda, cioè come costruzione dell’unità concreta», in M. Borghesi, Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale, Jaca Book, Milano 2017, 122 n. 277; per l’opposizione spazio-tempo, cf. pp. 127-130: «il tempo, come telos utopico, indica qui il luogo di risoluzione dei conflitti, di costruzione paziente dei progetti che non si limitano al presente ma tengono presente lo sviluppo futuro dei popoli». Cf. pure C. M. Galli, «La riforma missionaria della Chiesa secondo Francesco. L’ecclesiologia del popolo di Dio evangelizzatore», in Spadaro, Galli (edd.), La riforma e le riforme, 57-61.

[5] P. M. Zulehner, Teologia Pastorale. 4. Futurologia pastorale. La Chiesa in cammino verso la società di domani, Queriniana, Brescia 1992.

[6] D. Demetrio, L’educazione non è finita. Idee per difenderla, RaffaelloCortina Editore, Milano 2009, 17.

[7] Zulehner, Teologia Pastorale. 4. Futurologia pastorale, 27-28.

[8] Cf. Z. Bauman, Retrotopia, Laterza, Bari-Roma 2017.

[9] Per Zulehner la prima parte della futurologia pastorale (che egli denomina «kairologia futurologica pastorale») riguarda proprio la dottrina conciliare dei segni dei tempi (cf. p. 28). Le sfide colte per il cammino dell’umanità verso il futuro sono a suo parere fondamentalmente quattro: la pace, l’ambiente, i sessi, l’informatizzazione (cf. pp. 33-131. Sono, come ben si vede, delle sfide che ancora oggi ci riguardano molto da vicino.

[10] B. Häring, Liberi e fedeli in Cristo. I. Cristo ci ha liberato perché restassimo liberi (Gal 5, 1), Paoline, Roma 1980, 251. Seguendo la tradizione tomista, Häring inserisce il discernimento (discretio) nell’ambito della virtù della prudenza, cf. Ivi, 307-310. Il p. Häring collaborò alla redazione del testo conciliare; quanto alla perscrutatio dei segni dei tempi egli precisava che «tempus enim signum et vox est, pro Ecclesia et pro hominibus, quatenus secum fert prasentiam Dei, vel, infeliciter absentiam a Deo, necnon hominis magis minusve consciam ad Dei invocationem, Dei magis minusve patentem ad nomine vocem»: in breve, i segni dei tempi non sono univoci, ma ambivalenti; essi, cioè, possono parlarci sia della presenza, sia dell’assenza Dio. Occorre, dunque, sapere leggere in prospettiva teologica tanto i segnali, quanto i silenzi di Dio. Cf. per questo G. Ruggeri, «Criteri per una lettura dei segni dei tempi», in A. Matteo (a cura di), Il Discernimento. “Questo tempo non sapete valutarlo?”, Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2018, 159-173. Per una visione generale aggiornata del testo conciliare cf. èure F. Iannone, «Per una rinnovata lettura ecclesiale dei segni dei tempi», in CredereOggi 37 (5/2017) n. 221, 85-97.

[11] Ogni scelta, perché sia autentica ha sempre bisogno del discernimento, donde il principio enunciato da san Tommaso: electio discretionem quandam importat, «ogni scelta necessita di un’attività di discernimento»: S. Th. I, q. 19 a. 4 ad 1; q. 23 a. 4 arg. 3; De veritate, q. 22 a. 15 arg. 4. Per il discernimento, insistono sul carattere di «scelta» G. Angelini, Le ragioni della scelta, Qiqajon-Bose, Magnano (Bi) 1997; E. Bianchi, L’arte di scegliere. Il discernimento, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2018, 13; A. Cencini, «Dall’aurora io ti cerco». Evangelizzare la sensibilità per imparare a discernere, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2018.

[12] Cf. G. Gennari, voce «Segni dei tempi», in Nuovo Dizionario di Spiritualità a cura di S. De Fiores e T. Goffi, Paoline, Roma 1982, 1409.

[13] Il verbo latino discernere ha il senso generale di separare una cosa da un’altra; indica, perciò, un distinguere», ad esempio il bene dal male, il vero dal falso. Nel greco del N.T. vi corrispondono sia il verbo diakrinein col prevalente senso di distinguere (preferito da Giovanni Climaco, per la sua descrizione del discernimento: La Scala 26, I, 1), sia il verbo dokimazein col valore aggiunto di soppesare, valutare, accettare come sperimentato, giudicare. È questo il caso di Gaudium et spes n. 11, che ha un implicito rimando a Lc 12, 56: valutare i segni dei tempi. Si tratta, dunque, di una percezione critica di realtà storiche orientata ad una presa di posizione nei loro riguardi.

[14] Segreteria del Comitato Nazionale Preparatorio del 2° convegno ecclesiale «Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini». III Sussidio Insieme per un cammino di riconciliazione (Roma 22 febbraio 1985), n. 15, in ECei/3, 2182-2183. Tutte queste forti sollecitazioni entreranno, purtroppo, solo parzialmente nella parte dedicata al discernimento della Nota pastorale CEI La Chiesa in Italia dopo Loreto (9 giugno 1985), cf. nn. 32 e 44 in ECei/3, 2676. 2688. Saranno, però, riprese dalla Nota pastorale CEI dopo il Convegno di Palermo e, soprattutto, ritrovano attualità nel magistero di Francesco, cf. M. Semeraro, «Vorrei una Chiesa povera e per i poveri», in «Lateranum» 81 (2015)/1, 19-35.

[15] Senescit mundus, esclamava sant’Agostino facendo parlare il Signore: «Ti meravigli che il mondo va in rovina? È come un uomo: nasce, cresce, invecchia. Molti sono gli acciacchi nella vecchiaia: tosse, catarro, cisposità, ansietà, stanchezza. L’uomo dunque è invecchiato, è pieno d’acciacchi; è invecchiato il mondo, ch’è pieno di tribolazioni». Questo scriveva Agostino e proseguiva commentando: «Ti ha forse Dio concesso una piccola grazia, di mandarti cioè Cristo nella vecchiaia del mondo per rinnovare te quando tutto va in sfacelo? … Ad Abramo ormai vecchio nacque un figlio perché Cristo doveva venire nella vecchiaia dello stesso mondo. Venne quando tutto stava invecchiando e ti fece nuovo… Non desiderare di restare attaccato a un mondo decrepito e non rifiutare di ringiovanire unito a Cristo»: Sermo 81, 8: PL 38, 504-505.

[16] Per sollecitazioni su quanto segue, cf. G. Tangorra, Il discernimento del Concilio, in «Proposta Educativa» 2002/3, 43-48; E. Palladino, Laici e società contemporanea. Metodo e bilancio a cinquant’anni dal Concilio, Cittadella, Assisi 2013.

[17] Cf. De Praed. Sanct. 14, 27: PL 44, 98. Un altro passaggio di Gaudium et spes che sottolinea il compito comune è al n. 44: «È dovere di tutto il popolo di Dio, soprattutto dei pastori e dei teologi, con l’aiuto dello Spirito Santo, di ascoltare attentamente, discernere e interpretare i vari linguaggi del nostro tempo, e di saperli dirimere alla luce della parola di Dio, perché la verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venire presentata in forma più adatta» (n.44). In questo brano non soltanto ritorna il verbo discernere, ma compare pure quello affine di dirimere (il verbo latino cui ricorre Gaudium et spes è «diiudicare» che non ha solo il valore di esprimere un giudizio, ma pure quello di «separare» e, perciò, nuovamente, discernere). Per la categoria conciliare di «popolo di Dio», cf. M. Semeraro, Lumen gentium. Cinquant’anni dopo, Marcianum Press, Venezia 2016, 153-184.

[18] Si potrebbe tradurre nella scelta del «primo annuncio», che segnala pure alcune scelte pastorali in Italia, a cominciare dalla Nota CEI del 2004 su Il volto missionario delle nostre parrocchie e i progetti formativi curati da fr. E. Biemmi con i successivi volumi, avviati nel 2011 sul «secondo annuncio»: cito almeno E. Biemmi, Il Secondo annuncio. La grazia di ricominciare, EDB, Bologna 2011; Idem, Il Secondo annuncio. La mappa, EDB, Bologna 2013.

[19] Al modo di esempio rimanderei a V. Rosito, La parrocchia nella città che cambia, ne «La Rivista del Clero Italiano», giugno 2018/6), 454-464. L’articolo inizia così: «Mi è capitato recentemente di assistere a una processione in un quartiere di Roma, la città in cui vivo da quasi venti anni. La parrocchia del luogo è solita concludere il mese di maggio portando in processione il simulacro della vergine Maria. Nel corso degli ultimi decenni la fisionomia demografica della zona è profondamente cambiata anche in funzione della crescente presenza di famiglie provenienti dal subcontinente indiano, in prevalenza Bengalesi di religione islamica. Il quartiere, dove sorgono da tempo due moschee situate nei piani bassi di alcuni palazzi, non è propriamente un esempio di sperimentazione urbanistica multiculturale. Somiglia piuttosto a un arcipelago etnico dal grande impatto visivo, suddiviso in strade e zone monoculturali. Sul fare della sera, tra le vie illuminate dalle decorazioni del Ramadan, si snodava la processione a cui prendeva parte un numero considerevole di fedeli che alternavano canti a preghiere. Assiepati ai bordi della strada, altri fedeli, di religione islamica, osservavano il fluire lento della processione seguendo con lo sguardo la statua illuminata della Madonna. Mi sono interrogato su ciò che tutti in quel momento stessero pensando, sul modo in cui ciascuno vedeva ed era visto, sulle intenzioni di chi attraversava pregando le strade del quartiere e sulle domande di chi scrutava immobile dai marciapiedi un rito visto probabilmente per la prima volta» (pp. 454-455).

[20] Mi permetto rinviare a M. Semeraro, Per un pastorale generativa. Il cammino di rinnovamento della Iniziazione cristiana, MiterThev, Albano Laziale 2014; Il ministero generativo. Per una pastorale delle relazioni, EDB, Bologna 2016; La comunità cristiana, grembo capace di rigenerare, in «Orientamenti Pastorali» LXV/9 (settembre 2017), 72-89.

[21] CEI, Nota pastorale «Rigenerati per una speranza viva», n. 23.

[22] «Rigenerati per una speranza viva», n. 22. Il testo prosegue sottolineando le relazioni tra le diverse vocazioni, in particolare quelle reciproche tra pastori e laici

[23] Cf. V. Mignozzi, Come un sacramento. Uno stile per essere Chiesa oggi, Tau Editrice, Todi (Pg) 2011, in particolare le pp. 58-60. A titolo esemplificativo aggiungo anche M. Semeraro, I consigli parrocchiali in una Chiesa sinodale, MiterThev, Albano Laziale 2017.

[24] Sui temi del cosiddetto «discernimento comunitario» (meglio dire discernimento in comune) cf. G. Costa, Il discernimento, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi), 2018, 20-25; M. I. Rupnik, Il discernimento, Lipa, Roma 2014, 233-241; P. Schiavone, Discernere la volontà di Dio, Paoline, Milano 2018, 116-116. Diversi studi in Matteo (a cura di), Il Discernimento cit.

[25] Su questo aspetto, cf. C. U. Cortoni, «L’ascolto orante come “luogo” del discernimento cristiano», in Matteo (a cura di), Il Discernimento, 191-199.

[26] G. Savagnone, «I legami nella cultura del provvisorio», in E. Biemmi (a cura di), Il secondo annuncio. 3. Vivere i legami. Legarsi, lasciarsi, essere lasciati, ricominciare, EDB, Bologna 2016, 102.110.

[27] Nel vangelo lucano la parola «testimone» (martys = persona che ricorda) appare qui per la prima volta in rapporto ai discepoli; introduce, invece, l’opera degli Atti. «Questo è un termine fondamentale della teologia di Luca; più dell’apostolato, conta l’essere testimoni […]. L’importanza del testimone deriva dal fatto che il suo annuncio non riposa solo sull’imparato, ma anche e soprattutto, sul vissuto e sul veduto…», D. Attinger, Evangelo secondo Luca, Qiqajon-Bose, Magnano (Bi) 2015, 690.

[28] G. Piccolo, Leggersi dentro. Con il Vangelo di Luca, Paoline, Milano 2018, 278-279.