Castellaneta, 15 giugno 2022
OMELIA
Carissimi fratelli e figli,
…finalmente siamo insieme!
Con “cuore di padre” ed affetto fraterno, vi saluto e tutti vi ringrazio per la vostra presenza.
L’attesa è stata lunga e a tratti travagliata, a motivo della mia recente positività al Covid-19, ma come sosteneva S. Agostino: «Dio con l’attesa allarga il nostro desiderio, col desiderio allarga l’animo e dilatandolo lo rende più capace»[1]. Ed oggi, sono ben consapevole di essere qui per rimettere la mia vita nelle mani di Dio ed accogliervi tutti, perché «Lui che ci ha benedetti con ogni benedizione» (Cf. Ef 1,3) e mi ha chiamato ad essere «per voi Vescovo e con voi cristiano»[2], desidera riannunciarci il “disegno d’amore della sua volontà”, con il quale «ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a Lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi, mediante Gesù Cristo» (Ef 1,4-5).
È trascorso ormai un mese dalla mia Ordinazione episcopale ed ho ancora nitido nella mente il ricordo di quegli indimenticabili momenti di fede, di gioia e di festa, vera esperienza di comunione e di comunità, in cui lo Spirito Santo dono del Risorto, che ancora oggi gonfia di energie e di grazia le vele della barca della Chiesa, trasformava profondamente la mia vita rendendomi successore degli Apostoli.
Ma se il 14 maggio, a Benevento, la vostra numerosa presenza, suscitò sentimenti di profonda emozione, perché già mi sentivo parte della vostra vita, questa sera – in questa piazza – il mio cuore, con sensi di gratitudine, trabocca di gioia perché finalmente posso contemplare con i miei occhi il dono di grazia che il Signore, attraverso la scelta di Papa Francesco, mi ha consegnato: la “bella” e “viva” Chiesa che è in Castellaneta.
Nel gesto semplice e significativo della consegna del pastorale – che ho voluto ricevere, come segno di continuità nella successione apostolica, dalle mani del fratello vescovo Claudio, mio predecessore, che per sette anni è stato il Pastore buono che ha camminato insieme a questa Chiesa, edificandola nell’Amore – mi sono chiesto, come S. Agostino: «Ma, in questo servizio, che cosa si teme tanto se non il rischio che ci torni più gradito ciò che la nostra dignità comporta di pericolo, piuttosto che quanto è utile alla vostra salvezza?»[3].
Sono sempre più consapevole che «l’unico mio merito è la mia miseria» (S. Paolo VI), e – come l’apostolo Pietro alla porta del Tempio detta “Bella” – posso consegnarvi “né argento né oro, ma quello che ho: il Vangelo di Gesù Cristo” (Cf. At 3,6). Per questo, il segno del “pastorale”, così come quello dell’anello e della mitra – per me Vescovo, formato alla scuola di san Francesco d’Assisi – si traducono nell’impegno ad esercitare prima di ogni altra cosa quel che san Gregorio Magno definiva «il magistero dell’umiltà»[4], per testimoniare – secondo l’esempio del Venerabile don Tonino Bello – non «i segni del potere», quanto piuttosto «il potere dei segni», affinché le parole si saldino ai fatti ed il Vangelo diventi mentalità evangelica e stile di vita. Ed insieme – gregge e pastore – ci aiuteremo in questa necessaria e reciproca crescita.
L’arrivo di un nuovo Pastore, al di là della mia persona, è una carezza di Dio per questa Chiesa. Ed io vengo per stare in mezzo a voi “nel nome di Gesù”, crocifisso e risorto, con un solo desiderio: “fare tutto per il Vangelo” (1Cor 9,23), con quella gioia che «riempie il cuore e la vita di coloro che si incontrano con Gesù» (EG 1), dimorando sotto l’unico tetto della sua Parola!
«Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» (Gv 6,68).
Come Pietro sono qui a testimoniare la bellezza della solidità della fede che ci esorta a “stare con il Signore”, a cercarlo scrutando la sua Parola. Parola a volte dura, esigente, ma sempre «Lampada per i nostri passi… luce sul nostro cammino» (Cf. Sl 118 [119], 105). Parola dal cui annuncio si edifica e cresce continuamente la Chiesa. Parola che, proclamata in questa – come in tutte le celebrazioni eucaristiche –, «non si riferisce soltanto alla situazione presente che stiamo vivendo, ma rievoca il passato e fa intravedere il futuro, ravvivandone in noi il desiderio e la speranza, perché tra il fluire delle vicende umane, là siano fissi i nostri cuori, dov’è la vera gioia» (Ordinamento delle Letture della Messa 7).
Insieme al salmista sono a ringraziare il Signore per la grandezza della sua bontà (Cf. Sal 30 [31]), che si mostra sempre e di nuovo come un’effusione straordinaria di amore che ci unisce a Colui che è Amore (1Gv 4,8) e continua a manifestarci per primo il suo Amore (1Gv 4,19).
Questa sera, attraverso la pagina del Vangelo proclamata, questa piazza sembra trasformarsi “idealmente” nel nostro lago di Tiberiade, sulle cui rive abbiamo riascoltato questo dialogo intimo e per certi versi imbarazzante, tra il Risorto e Pietro, con quella triplice domanda sull’amore che non cessa di stupirci e che deve continuare a risuonare nella mia vita di Vescovo, ma anche nel nostro vissuto comunitario di Chiesa “in cammino”.
«Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». «Mi vuoi bene?»
È la nuova chiamata riservata a Pietro dopo la resurrezione. Che si rinnova a partire dalla novità della Pasqua. Sembra un paradosso: Colui che ha consumato la sua vita nell’annunciare e donare amore, ora si fa mendicante d’amore. È una domanda rivolta ad un uomo che al di là di solenni propositi di vita si è fatto vincere dalla paura, ha rinnegato, si è nascosto, ma soprattutto è ritornato alle origini.
Il Risorto «domanda, non una sola volta, ma una seconda e una terza, se Pietro gli vuol bene (…). Così alla sua triplice negazione corrisponde la triplice confessione d’amore, in modo che la sua lingua non abbia a servire all’amore meno di quanto ha servito al timore»[5].
Il Signore interpella la libertà di Pietro; sembra chiedergli: «Pietro, dove sei? Dove ti trovi nel tuo cammino discepolare?» È la fiducia del Signore che si manifesta nuovamente a partire anche dalle rovine della vita.
Questa sera, riprendendo il nostro cammino, il Signore desidera parlare al segreto del cuore e rinnova anche alla nostra Chiesa di Castellaneta, la stessa domanda: Mi ami tu?
Lo chiede a me, nuovo Vescovo, lo chiede a ciascuno di voi, Sacerdoti, Diaconi, Consacrati, Seminaristi, a quanti svolgono un ministero, a tutto il Popolo di Dio: Mi ami tu?
Non corriamo il rischio – spesso frequente – di rispondere in modo frettoloso e superficiale. Questa domanda esige la docilità di guardarsi dentro, di rientrare in sé stessi. È una reale proposta d’amore: siamo invitati ad immetterci in una relazione d’intimità, lasciandoci esaminare il cuore dal Signore (Cf. Rm 8,27).
Facciamo «risuonare – per la nostra Chiesa che è in Castellaneta, nuovamente – la chiamata [“alta”] alla santità, cercando di incarnarla nel contesto attuale, con i suoi rischi, le sue sfide e le sue opportunità» (GE 2). «Mi piace vedere la santità – come invita Papa Francesco – nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere […] Questa è tante volte la santità “della porta accanto”, di quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio, o, per usare un’altra espressione, “la classe media della santità”» (GE 7). Ed è proprio dalla “porta accanto” delle nostre comunità parrocchiali, dei nostri vicini nella prossimità, dei tanti e disparati bisogni e delle attività del territorio, di coloro che quotidianamente incontriamo nella nostra vita, sul posto di lavoro e nelle nostre abituali occupazioni, che il Signore continua a chiederci “mi ami tu?”.
Chiesa di Castellaneta: mi ami tu?
Lasciamo che questo interrogativo interpelli, ancora una volta, la nostra vita ecclesiale.
“Mi ami tu?”. È una proposta esistenziale che genera il desiderio di camminare e vivere insieme, come comunità ecclesiale che dopo aver intrapreso la via della sinodalità, è invitata ad approfondire e maturare, attraverso la strada dell’umiltà, il rapporto comunionale con il Signore e tra di noi: «Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da sé stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me (Gv 15,4).
Il Maestro ci sollecita a riconoscere, custodire e valorizzare ciò che di buono è stato realizzato in questi anni: le tracce di luce e i segni di speranza presenti nella nostra storia personale e comunitaria. Abbiamo la responsabilità di coltivare questa eredità ecclesiale, lasciandola fluire nell’alveo spirituale e pastorale della nostra Chiesa, per dare ad essa un futuro di fede. Ma, al contempo, il Risorto ci esorta a fare un passo oltre. Ci chiede di non abbandonarci alla facile tentazione del «comodo criterio pastorale del “si è fatto sempre così”» (EG 33); così come a promuovere un’autentica spiritualità di comunione, affinché gli strumenti esteriori, per viverla e rafforzarla, non siano puramente formali, ma vie per esprimerla e nutrirla (Cf. NMI 43). È l’invito ad accogliere «la sfida di scoprire e trasmettere la “mistica” del vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità» (EG 87), laddove a prevalere è il principio dell’unità nella “convivialità delle differenze” (Tonino Bello).
«Simone, figlio di Giovanni, mi ami di più?». A me e a voi, soprattutto ai fratelli presbiteri, il Signore chiede il “di più di questo amore”: non ci chiede “il tanto” del fare, quanto piuttosto “il tutto” della vita. “Vivere per… con… in… Lui” sarà questa la misura vera ed autentica di ogni nostro ministero e struttura ecclesiale, che si esprimerà in pienezza nel dono totale di sé, perché: «la Chiesa non cresce per proselitismo ma “per attrazione”» (EG 14).
Nell’incalzare delle domande sull’amore il Risorto rilancia sempre e di nuovo il cammino, con un’investitura: «Pasci le mie pecore».
Ad ogni risposta, il Signore dà fiducia ed affida un compito, un incarico, quello di pascere il suo gregge che è la Chiesa; perché il Signore è sempre alla ricerca di una collaborazione-partecipazione stabile e duratura.
Come ha scommesso su Pietro, continua a fidarsi – partendo dalla fragilità che abita la vita – di tanti uomini e donne, invitati nella diversità dei servizi a pascere l’unico gregge: me compreso! Ci consegna un ministero di vita e di testimonianza che chiede una lenta e graduale conformazione a quel dono di sé con cui Gesù per primo rende testimonianza alla verità, per edificare la Chiesa nella vera comunione.
L’esortazione di Pietro, che c’è stata consegnata nella Liturgia della Parola, enumera alcune disposizioni d’animo del pastore che oggi, iniziando questo ministero, sento particolarmente rivolte a me e che affido anche ai miei confratelli presbiteri per il loro specifico ed essenziale ministero “tra la gente”: pascete «il gregge di Dio […], sorvegliandolo non perché costretti ma volentieri […], non per vergognoso interesse, ma con animo generoso, non come padroni delle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge» (1Pt 5,2-3).
Essere Pastori significa credere ogni giorno nel dono di grazia e nella forza che proviene da Lui, al di là delle umane debolezze. Quella del Pastore è sempre una missione esigente, che il profeta Ezechiele nella prima lettura presenta con ulteriore chiarezza, soprattutto, nel compito di andare in ricerca della pecora perduta, di ricondurre all’ovile quella smarrita, di curare quella malata, di accompagnare le pecore in ottime pasture. È significativa – a tal proposito – l’immagine nettamente pastorale usata da Papa Francesco per descrivere la vigilanza e la custodia. Bisogna essere pastori «con l’odore delle pecore e il sorriso del padre»[6], ma soprattutto bisogna impegnarsi nel «camminare davanti per indicare il cammino, la via; nel camminare in mezzo, per rafforzare il Popolo di Dio nell’unità; nel camminare dietro perché nessuno rimanga indietro ma, soprattutto, per seguire il fiuto che ha il Popolo di Dio per trovare nuove strade. [Ma stando in mezzo al gregge bisogna avere] le orecchie aperte per ascoltare “ciò che lo Spirito dice alle Chiese” (Ap 2, 7) e la “voce delle pecore”, anche attraverso quegli organismi diocesani che hanno il compito di consigliare il Vescovo, promuovendo un dialogo leale e costruttivo»[7].
«Pasci le mie pecore». Non è una responsabilità esclusiva di me Pastore. L’itinerario sinodale, ci ha richiamato ad un secondo valore essenziale e per certi aspetti imprescindibile: quello della “partecipazione”, da esprimersi attraverso lo stile della corresponsabilità, pur se nella diversità dei ruoli e dei ministeri.
«Pasci le mie pecore». Tutti – nessuno escluso o peggio ancora spettatore – in virtù della comune vocazione battesimale, siamo invitati (e questo è anche il sogno di me Pastore) ad impegnarci nell’edificazione di una comunità cristiana sempre più credibile e al servizio della persona umana, che in nome del Vangelo vinca la tentazione del quieto vivere; che, in ascolto dello Spirito e con le porte aperte, si faccia Chiesa in uscita, come «una famiglia tra le famiglie, che testimoni al mondo odierno la fede, la speranza e l’amore verso il Signore e verso coloro che Egli ama con predilezione» (FT 276). Una comunità che esca «dalle sue sacrestie» e superi l’esteriorità dei riti per farsi discepola di fragilità e madre di gratuita compassione per «accompagnare la vita ed essere segno di unità […] per gettare ponti, abbattere muri, seminare riconciliazione» (FT 276). Una comunità in cui non ci sia spazio per l’avidità del guadagno e l’esercizio “supponente” del potere, quanto piuttosto per una proposta umile ed evangelica dell’autentico servizio.
Il dialogo tra Gesù e Pietro termina con l’ultima proposta d’amore alla sua Chiesa: “Seguimi”.
Oggi, in quest’ora particolare della mia vita, sento questo invito rivolto particolarmente a me: il Signore mi chiede di rinnovarmi nella sequela. Con lo stesso slancio degli anni giovanili, quando abbracciando il carisma di San Francesco d’Assisi facevo mie le sue parole: «non bisogna avere altro da fare che seguire la volontà del Signore e piacere unicamente a Lui» (Cf. Rnb 9: FF 57), sono pronto a seguirlo “di nuovo e sempre” in questa Chiesa “bella” e “viva” di Castellaneta.
Il Risorto, proponendomi questo nuovo “Seguimi” sembra dirmi:
«Seguimi nella predicazione del Vangelo. Seguimi nella testimonianza di una vita corrispondente al dono di grazia del Battesimo e dell’Ordinazione. Seguimi nel parlare di me a coloro con i quali vivi, giorno dopo giorno, nella fatica del lavoro, del dialogo e dell’amicizia. Seguimi nell’annuncio del Vangelo a tutti, specialmente agli ultimi, perché a nessuno manchi la Parola di vita, che libera da ogni paura e dona la fiducia nella fedeltà di Dio»[8].
La vita di ogni battezzato, così come quella di ciascun presbitero – ed anche del Vescovo -, non è anzitutto quella del “fare”, ma del “seguire”. E di un “seguire” non solitario, ma comunitario. Siamo invitati a “seguire” il Signore “insieme”, come Chiesa, come popolo di Dio “in cammino”.
Ecco, perché il Risorto – in questo scenario particolare – questa sera ripete con forza a tutti noi: Chiesa che sei in Castellaneta… “Seguimi”.
La terza parola indicata dal Sinodo è “missione”.
Il Signore ci ricorda «che tutti siamo invitati ad accettare questa chiamata: di uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo» (EG 20). La missione ci rende, un po’ tutti, più vulnerabili, ma ci aiuta a ricordare la nostra condizione di discepoli e ci permette di riscoprire sempre e di nuovo la gioia della vita buona del Vangelo.
Allora, da oggi, sforziamoci di accogliere anche noi questo invito del Risorto; impegniamoci nuovamente nel desiderio di metterci alla sua sequela per risorgere come Pietro ed imparare a vivere con quell’amore che «ci precede (Cf. 1Gv 4,10) e ci esorta a fare il primo passo, prendendo l’iniziativa senza paura, andando incontro, per cercare i lontani ed arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi» (EG 24).
«Mi vuoi bene?… Signore tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene».
Coraggio, fratelli e sorelle…
Coraggio mia “bella” e “viva” Sposa che sei in Castellaneta…il Signore è con te, non temere… Facciamo in modo di essere sempre: per Lui… con Lui… in Lui! Realizzeremo così il sogno di Dio di far rifiorire l’umano, come accadeva a quanti incontravano Gesù e ne venivano risanati e restituiti a vita nuova. La strada è tracciata e ci è riaffidata: dobbiamo percorrerla stando “insieme” dietro di Lui.
La Vergine Maria, San Giuseppe e i nostri santi patroni Nicola e Francesco di Paola, intercedano per tutti noi e ci sostengano in questo nuovo cammino di vita. Amen!
[1] S. Agostino, Commento alla Prima Epistola di san Giovanni, 4, 6 in Opere di sant’Agostino/XXIV.2, Città Nuova, Roma, 2004.
[2] S. Agostino, Sermo 340, 1: PL 38,1483.
[3] S. Agostino, Sermo 340, 1: PL 38,1483.
[4] S. Gregorio Magno, La regola pastorale I, 1.
[5] S. Agostino, Sermo 123, 5.
[6] Cf. Papa Francesco, Omelia nella Messa Crismale del Giovedì santo, 2 aprile 2015.
[7] Cf. Papa Francesco, Costituzione apostolica, Episcopali communio, 5.
[8] Papa Francesco, Omelia del 29 giugno 2014.